È durata poco più di un mese, la scuola “normale”, con le lezioni in presenza e gli studenti in aula. Da lunedì, più di 2 milioni e mezzo di alunni delle superiori sono tornati alla didattica a distanza che, stando all’ultimo Dpcm del governo, non può essere inferiore al 75% delle ore di lezione. Alcune regioni, però, come Lombardia, Campania e Abruzzo, hanno deciso di alzare la soglia della Dad al 100%, scatenando le proteste di studenti e famiglie. Già durante il lockdown, almeno un milione e mezzo di ragazzi non era stato raggiunto dalle videolezioni e, stando al Censis, soltanto l’11% delle scuole era riuscito a raggiungere tutti gli studenti con la didattica a distanza. E adesso il timore che la situazione si ripeta e molto elevato.
Bastano alcuni dati Istat per rappresentare la situazione delle famiglie italiane sotto il profilo delle dotazioni tecnologiche: il 33,8% non ha un computer e nemmeno un tablet; il 12,3% dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni (850mila persone), non possiede un pc o un tablet e più della metà risiede nel Mezzogiorno. Per limitare il disagio degli studenti, nel decreto Ristori approvato ieri, sono stati stanziati 85 milioni di euro che permetteranno di acquistare 200mila device e 100mila connessioni. Un secondo decreto della ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, mette a disposizione altri 3,6 milioni di euro per l’acquisto di connessioni internet.
Nell’attesa, però, studenti e genitori, anche ieri mattina, hanno protestato sotto la sede della Regione Lombardia, proprio mentre il governatore Attilio Fontana otteneva un sostanziale via libera dei presidi alla linea rigorista della Dad al 100%. «La Regione ha rinunciato alla scuola e a chi la vive ma noi no – hanno scandito i rappresentanti dell’Unione degli studenti lombardi –. Non faremo un passo indietro. La Dad non può che essere un tappabuchi, non la soluzione».
Alla preoccupazione di docenti e presidi dà voce Elena Ugolini, dirigente del liceo “Malpighi” di Bologna ed ex-sottosegretario all’Istruzione del governo Monti. «Non sono assolutamente d’accordo sul sacrificare sempre i ragazzi delle superiori, perché possono stare a casa da soli, e gli universitari – commenta la dirigente –. Vengono sacrificati perché non hanno voce né sindacati o associazioni che li proteggano. Intendiamoci: non sto dicendo di chiudere le scuole del primo ciclo, anzi. Ma se non vogliamo perdere queste generazioni - e sono tanti e palesi i segni di difficoltà e disagio - dobbiamo permettere loro di continuare a venire a scuola in presenza, con compagni e docenti».
Sulla «scuola a doppia velocità» che «danneggia gravemente il percorso educativo e culturale dei giovani», si sofferma l’analisi di suor Anna Monia Alfieri, tra le voci più accreditate sui problemi dell’organizzazione dei sistemi formativi, che ricorda anche la situazione degli alunni disabili, «che già hanno vissuto una situazione di isolamento e da settembre si sono visti escludere dalla scuola» per la mancanza di insegnanti di sostegno.
Nei territori ad alto rischio disagio e dispersione scolastica, dove la (ri)chiusura delle scuole rischia di amplificare ulteriormente una crisi rimasta a lungo sottotraccia e ora tornata prepotentemente in primo piano, è presente la Fondazione Agnelli con Save the Children e il progetto Arcipelago educativo. Destinatari sono i bambini e ragazzi di elementari e medie di Torino, Milano, Aprilia (in provincia di Latina), Bari e Reggio Calabria, dove sono attivi 11 centri educativi, con 1.700 allievi di 47 scuole. A Torino, in particolare, sono sedici le scuole coinvolte dei quartieri a più alta incidenza di disagio sociale, come Falchera, Pietra Alta, Barriera di Milano, Barca e Vallette.
Paolo Ferrario
Avvenire, 28 ottobre 2020