Che la nostra sia l’epoca della tecnoscienza è difficile negarlo. Sulla scia del positivismo di ottocentesca memoria e dopo le grandi trasformazioni tecnologiche del ’900 e la grande rivoluzione cibernetica in cui siamo immersi, alla scienza è stato affidato il monopolio della conoscenza, tanto che alla filosofia, cui solitamente spettava il compito di dare un significato e un valore alla vita umana, sembrano rimaste solo le briciole. Eppure, gli eventi più recenti che sono accaduti, spesso imprevisti e forse imprevedibili, dalla pandemia alla guerra che si è ripresentata in Europa ai disastri ambientali, rilanciano la necessità di una ricerca del fondamento e del senso. È questo il tentativo compiuto da Evandro Agazzi, l’allievo di Gustavo Bontadini autore di una novantina di opere e di un lungo magistero in filosofia della scienza dall’Europa all’America Centrale, nel suo ultimo saggio, La conoscenza dell’invisibile, pubblicato da Mimesis (pagine 370, euro 28).
«La filosofia – spiega Agazzi – da sempre si è presentata, almeno in Occidente, come un sapere inteso a offrire una conoscenza della realtà considerata in generale». Per questi motivi il dominio della tecnoscienza non può mai escludere, anzi rende ancor più necessaria, la questione della conoscibilità dell’invisibile. A partire da alcune domande essenziali: «L’Universo è solo un’Idea? Dio è solo un’Idea? L’anima spirituale dell’uomo è solo un’Idea? Il dovere, la giustizia, la rettitudine morale e tanti altri valori per i quali gli uomini molto spesso ritengono che valga la pena di vivere e anche di morire sono soltanto Idee? Oppure a esse corrispondono altrettanto Realtà che pur essendo invisibili è possibile conoscere in forme e modalità adatte?». Se non ci si lascia imbrigliare da una teoria della conoscenza angusta, quale quella espressa da Kant, che «ha assunto la conoscenza delle scienze esatte come unica forma di autentica conoscenza», e ci si rivolge alle arti, alla letteratura e alla religione, si possono aprire nuovi orizzonti.
Da filosofo della scienza, Agazzi non demonizza affatto la conoscenza scientifica, ma non può non rilevare un paradosso proprio dei nostri tempi: da un lato, la cultura oggi insiste sulla necessità di accentuare lo sviluppo di conoscenze scientifiche e tecnologiche, in termini di investimenti, programmi di ricerca, curricoli educativi, considerate l’unico motore dell’innovazione e della crescita economica; dall’altro emerge la tendenza a sottolineare gli accenti apocalittici e i pericoli che incombono sull’umanità proprio a causa dello sviluppo incontrollato della tecnoscienza. Un’ambivalenza che rispecchia un altro paradosso secondo Agazzi: se scienza e tecnologia dominano la nostra esistenza concreta, al contempo assistiamo a un loro scarso peso culturale. Ci stupiamo per le continue scoperte e realizzazioni, ma esse non danno un senso più pieno alla vita.
«Non per nulla – rileva il filosofo – l’immagine corrente che si ha della scienza e della tecnologia è quella di un sapere e di un operare capaci di attingere certezze indiscutibili e risultati pratici strepitosi, di un qualcosa che ci stupisce, ci rassicura e ci inquieta, ben più che farci riflettere, pensare, giudicare». Per questi motivi occorre certamente promuovere una cultura scientifica e tecnologica ma al tempo stesso incentivare una riflessione epistemologica sul suo significato e non penalizzare le discipline umanistiche, il cui «valore culturale e formativo risulta dal fatto che esse consentono di riflettere sulla vita dell’uomo, di comprendere quella complessità di significati, problemi, scelte, valori che caratterizzano la condizione e la situazione umana».
Tutto ciò vale ancor di più in una società dominata dal caso e dall’imprevedibilità, manifestatisi nelle varie crisi che hanno colpito questi due decenni del XXI secolo con eventi e modalità (dall’11 settembre alle catastrofi economiche e ambientali, dal Covid alla guerra in Ucraina) che hanno messo ancor più sotto scacco l’idea di progresso, già sgretolata dalle tragedie delle guerre mondiali e dei totalitarismi del secolo scorso. Commenta Agazzi: 'Considerando questi esempi, appare del tutto ingenuo pensare che ormai siamo riusciti ad eliminare radicalmente l’imprevedibilità del futuro'. Come immaginare allora il futuro? E come costruirlo? Riscoprendo le categorie filosofiche della prudenza e della saggezza, dato che «le sfide del nuovo e dell’imprevisto esigono risposte basate su una creatività, una plasticità, un’adattabilità che non possono scaturire da un vuoto relativista o agnostico, bensì da una ricchezza di convinzioni che ci spinge a cercare, in qualunque circostanza, ciò che è meglio e che dipende da noi». Solo ritrovando valori e ideali forti potremo guardare ancora al futuro con speranza.
Roberto Righetto
Avvenire, 3 settembre 2022
(foto Touann Gatouillat Vergos/Unsplash)