Non è un fantasma e si aggira tra noi. Se ne sta parlando un po’ ovunque. Già migliaia di studenti a Firenze, a Milano, in tante città, e poi letture, conferenze da Padova a Foggia, da Lecce a Torino, Ben prima che la tardiva macchina delle celebrazioni istituzionali si metta in moto, finanziata con soldi pubblici, un sacco di gente ( e autori, editori etc) si è messa a festeggiare i duecento anni dalla composizione della poesia L’infinito di Giacomo Leopardi.
Una grande iniziativa culturale che unisce l’Italia, dal basso. Ma come? Mentre sembra che l’opinione pubblica sia fatta di gente solo arrabbiata, vogliosa di litigare su tutto, risentita, c’è invece un sacco di gente che mormora quella poesia magnetica, dove un segno chiaro, il vento, fa 'sovvenire' al giovane poeta una possibile esperienza dell’eterno legato al tempo, dell’infinito al limite? C’è come lui tanta gente che, in mezzo a problemi di vita, di salute, di futuro è concentrata a «imprimere il sigillo dell’infinito nella propria vita», come raccomandava Emmanuel Mounier? Ascoltano o mormorano questa poesia come un mantra, un indizio, un suggerimento. 'Infinito200' è il nome che accomuna molte di queste iniziative, lanciato come libera ghirlanda dai ragazzi del Centro di poesia dell’Universita di Bologna (che leggeranno L’infinito in giugno in cima a una torre di Bologna, all’alba!) e dalla piccola e vivace fondazione Claudi, marchigiana. Un fiorire appunto. Sono colpito dal fatto che un mio libretto dedicato a questa poesia ('E come il vento', Fazi) sia entrato nei libri più venduti di saggistica. Forse non è strano.
E non solo per la bellezza magnetica, biblica e danzante, del testo. Guardiamo bene. In questa epoca dominata dal problema della identità dell’io, dove il tema identitario è continuamente agitato da filosofi gender e da politici di vario schieramento, la questione del rapporto con l’infinito è davvero capitale. Molte ideologie e filosofie, e non da ora, come notarono poeti quali Eliot o lo stesso Leopardi, o studiosi da Ortega Y Gasset a Huizinga e altri, hanno provato a mettere una giacca all’io umano, hanno proposto varie identità che presumono di dire 'io che sono'. Hanno finito per creare un cortocircuito, oggi evidente, per cui si rischia sempre di più di identificare, di legare la identità di una persona a qualcosa che fa, a un atto, a una tendenza, ad alcune cose... Ci hanno messo addosso molte giacche per 'identificarci'.
Tu sei un bianco, un nero, un omosessuale, un etero, un vegano, un assassino, un ladro etc. Questo modo di pensare sta eliminando la antica e sacrosanta distinzione tra identità della persona e atti che può compiere e che però non dicono tutto di essa, e sono al tempo stesso tutti discutibili. Si dice il peccato, non il peccatore diceva la mia nonna Peppa, indicando che la persona è sacra e non coincide con quel che compie, se pur sbagliato. Oggi invece, come conseguenza ansiogena dell’identitarismo di vario genere, se fai un errore sei un errore.
E questo divora d’ansia i nostri giovani e non solo, anche perché gli errori spesso si sanno in fretta nella piazza virtuale. Invece no, ci mormora quella poesia: l’io è identificato solo dal suo rapporto con l’infinito, con qualcosa che eccede ogni misura e dà valore alla persona con qualsiasi giacca si presenti o che il potere abbia tentato di cucirle addosso. Basta con queste giacche strette entro cui l’io soffre e si offende facilmente. Ci sono un vento e una poesia che parla di lui, qualcosa che fa respirare.
Davide Rondoni
Avvenire, 25 aprile 2019