«I giovani manifestano un malessere importante soprattutto negli aspetti che riguardano la socialità e purtroppo possiamo fare molto poco perché non possono rivolgersi direttamente a un consulto psicologico o psichiatrico»: la frase è stata pronunciata dal pubblico ministero Sabrina Ditaranto durante la conferenza stampa dedicata alla strage di Paderno Dugnano. Fa riferimento a quel che prevede la legge: per chiedere i servizi di uno psicologo, un minorenne deve avere il consenso di entrambi i genitori. Vero è che non capita di frequente che un adolescente scelga questa strada in autonomia, piuttosto – e più spesso – sono mamma e papà a indicarla: e se da un lato è sempre più evidente il rischio di medicalizzare il rapporto educativo, dall’altro è meglio correre quel rischio che rimpiangere di aver trascurato una possibilità. Confidarsi con i genitori può essere più difficile che raccontare i propri guai a un estraneo. E una via di mezzo c’è: lo psicologo scolastico, che non ha mansioni da terapista ma da consulente.
L’Italia resta l’unico Paese in Europa a non aver istituzionalizzato questa figura professionale: fino al 2022 esistevano finanziamenti specifici per l’assistenza psicologica a scuola, introdotti nel 2020 quando – per fronteggiare i disagi derivati dall’emergenza Covid – il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi e il ministero dell’Istruzione firmarono un protocollo d’intesa, cui seguì lo stanziamento di un fondo di 40 milioni di euro annui (al di fuori dei finanziamenti ordinari). Non molto, a conti fatti, ma sufficienti per cominciare: circa 5mila euro per ogni scuola che dovevano essere utilizzati esclusivamente per il supporto psicologico. Prima dell’avvio del progetto, che il nuovo esecutivo non ha rinnovato, le scuole che garantivano questo genere di assistenza agli alunni erano il 25%, salite nei due anni successivi – grazie ai fondi – al 70%. Va da sé che oggi, senza finanziamenti dedicati, la percentuale è di nuovo precipitata: ciascuna scuola fa quel che può. O, più spesso, non può.
Presentate nel 2023, sono tutt’ora in corso di esame presso la settima Commissione della Camera tre proposte di legge sull’istituzione dello psicologo nelle scuole di ogni ordine e grado: sono la C 247 Marocco, la C 520 Di Lauro e, infine, la C 1108 Scarpa, quasi sovrapponibili nei contenuti, con al centro l’idea di aprire un canale di comunicazione tra famiglie, scuole, servizi sanitari e istituzioni, insegnanti e studenti. Tutte prevedono fondi dedicati, fino – nell’ipotesi più generosa – a 60 milioni di euro l’anno.
«Lo psicologo è comunque presente in moltissime scuole. Quello che manca in Italia è la sua istituzionalizzazione, che venga definito come una figura in organico e non solo per le scuole secondarie di secondo grado ma anche negli ordini precedenti» spiega Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell’adolescenza all’Università Cattolica di Milano ed esperta di scuola. Che prosegue: «Spessissimo dopo il Covid sono stati i ragazzi stessi a richiede la presenza di questo professionista, pretendendo però una continuità che lo renda elemento stabile e costante, proprio come le altre figure educative che fanno parte della scuola».
Fino a sedici anni è necessario il consenso dei genitori per rivolgersi allo psicologo ma viene chiesto all’inizio dell’anno una volta per tutte, e se uno studente decide di utilizzare il servizio può farlo autonomamente e senza chiedere né comunicare altro in famiglia. Se non vuole». Lo psicologo scolastico non è un terapista: nei colloqui con i ragazzi cerca di capire qual è il problema da risolvere, se sia di tipo scolastico o personale, e solo se intravede un bisogno che non può essere trattato in un’ottica non psicoterapeutica suggerisce al ragazzo stesso o alla famiglia di rivolgersi al tipo di sostegno necessario.
«La scuola è un luogo dove i ragazzi passano molto tempo e, quindi, sapere di trovarvi una figura che possa essere loro di aiuto è importante. Rassicurante. Fatto riconosciuto sia a livello nazionale che internazionale, non abbiamo bisogno di altre conferme rispetto a questo. Le questioni che i ragazzi sottopongono – prosegue Confalonieri - sono di tipo diverso. Alcuni chiedono aiuto per problemi di natura scolastica, l’ansia, le interrogazioni, se quella che stanno frequentando è la scuola giusta oppure no, parlano dei dissapori con gli insegnanti, con i compagni… Quindi portano una serie di difficoltà di tipo didattico o relazionale, legate alla scuola».
Nessuno, però, vive una vita divisa in compartimenti stagni e per forza un adolescente si porta sempre appresso la sua fatica di crescere: questo non significa che le sue ansie e le sue incertezze siano necessariamente predittive di disagio o di patologie più importanti. «Tutt’altro. Sono le normali e fisiologiche fatiche del crescere. I problemi identitari, legati al proprio corpo, alla sfera amicale o affettiva, ai propri genitori – elenca la docente – e tutte le più ricorrenti problematiche dell’adolescenza. Il più delle volte è risolutivo il percorso offerto dalla scuola che dà strumenti, una prospettiva un po’ diversa con cui leggere queste fatiche, e si rivela un supporto sufficiente affinché in quel momento di particolare fragilità l’adolescente riparta con le sue risorse e, anzi, con qualche risorsa in più che ha acquisito grazie a questo percorso. È un luogo in cui possono essere accolti contenuti e superati determinati problemi. O, viceversa, individuati problemi più importanti che se non ci fosse stata quest’occasione di colloquio non sarebbero emersi, sarebbero rimasti latenti. Più si aspetta ad affrontare una difficoltà di crescita, più si fatica a risolverla».
Nicoletta Martinelli
Avvenire, 5 settembre 2024