Continua la fuga dei cervelli. Secondo gli ultimi dati Istat, in cinque anni l’Italia ha perso complessivamente oltre 156mila tra laureati e diplomati. Nel 2017, più della metà dei cittadini italiani che si è trasferita all’estero (52,6%) possiede un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33mila diplomati e 28mila laureati. Rispetto all’anno precedente il numero di diplomati emigrati è sostanzialmente stabile, mentre quello dei laureati mostra un lieve aumento (+3,9%). Tuttavia l’aumento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto al 2013, gli emigrati diplomati aumentano del 32,9% e i laureati del 41,8%. Considerando l’età, gli espatriati di 25 anni e più sono 82mila e 31mila quelli rimpatriati nella stessa fascia di età.
Ma perché i laureati fuggono all’estero? «Perché il nostro Paese è poco competitivo – spiega Antonella Salvatore, direttore del Centro di avviamento alla carriera della John Cabot University di Roma, che incontra mediamente 1.000 studenti l’anno di oltre 75 nazioni –. Investiamo meno di tutti in Europa in formazione e cultura, siamo al 25° posto in Europa per digital transformation, investiamo poco in innovazione, siamo un Paese in cui i giovani percepiscono ancora poca meritocrazia, siamo chiusi e poco multiculturali. Lo straniero spaventa: non siamo un Paese multiculturale ». Tuttavia c’è anche una ricetta per fermare questa emorragia: investire in formazione e innovazione, sviluppare percorsi universitari collegati al mondo del lavoro. «Al tempo stesso – conclude la docente – serve un cambiamento culturale, un Paese che deve darsi da fare, che deve valorizzare lo studio e non il pezzo di carta, che deve dare spazio alla meritocrazia e alle competenze e aiutare i giovani nello sviluppo di queste competenze fin dalle scuole superiori».
Maurizio Carucci
È un esodo drammatico per il Paese, non c’è dubbio, la perdita secca di giovane capitale umano, delle energie e delle competenze che servirebbero a costruire il domani. Il fenomeno della 'fuga dei cervelli' si dovrebbe imporre come urgenza effettiva al pari almeno di quella che ha interessato altri 'esodati', con qualche capello grigio in più, quale effetto collaterale della riforma Fornero. Ma tra le due, è la seconda ad aver catalizzato quasi tutta l’attenzione politica (anche perché più remunerativa dentro le urne). Allo stesso modo, ci si è concentrati massimamente sulla presunta – stando ai numeri – emergenza immigrazione senza considerare la necessità di favorire ancor di più e capitalizzare il rientro di menti fresche e preparate, 'cervelli in movimento' che, dopo un’esperienza di studio e lavoro all’estero, tornano in Italia arricchendo il Paese. L’ultima ricognizione del Mef sulle dichiarazioni 2017 quantificava in 85mila euro il reddito medio dei 1.500 italiani rientrati a casa, un livello quattro volte superiore a quello del lavoratore dipendente standard. Questi 're-immigrati' in patria potevano beneficiare di un’imponibilità sul 70% delle entrate da lavoro anziché sull’intero ammontare. La misura specifica per 'attrarre i cervelli' garantiva invece un’imponibilità sul 20% (donne) e sul 30% (uomini): gli aderenti, in questo caso, sono stati 2.200. Le agevolazioni per docenti e ricercatori, infine, che prevedeva (e prevede tuttora) una tassazione sul 10% delle entrate da lavoro, ha riguardato 1.200 soggetti con un reddito di 153.700 euro e cioè circa sette volte la media. Non a caso il Ministero ha tenuto a rilevare «l’elevato livello di qualificazione dei contribuenti che rientrano in Italia». Cervelli che hanno fatto esperienza come manager, lavoratori qualificati, docenti, ricercatori, scienziati all’estero, e che a un certo punto della carriera – in molti casi al culmine della loro carriera – l’esperienza e conoscenza affinate oltre i confini domestici iniziano a 'redistribuirle' a casa.
Marco Girardo
Avvenire, 14 dicembre 2018