Ogni qualvolta si parla di buono scuola, come di recente ha fatto il ministro Valditara ipotizzando una legge che ne promulghi l’applicazione su tutto il territorio nazionale, inevitabilmente scattano, come riflessi condizionati, i pregiudizi culturali con cui ad esso si guarda nel nostro Paese. È forse bene allora soffermarsi a puntualizzare alcuni aspetti e ragioni di uno strumento tanto dibattuto quanto misconosciuto dai più, essendo appannaggio attualmente di sole tre regioni del nord Italia e avendo conosciuto un’estensione nazionale solo in modo fugace e limitato nel tempo, tra il 2003 e il 2006.
Cominciamo con il dire che a livello culturale l’idea di concedere dei buoni, ovvero dei titoli di credito rimborsabili, da “spendere” per far fronte alle spese scolastiche dei figli, non nasce in area cattolica bensì in area liberale, per la precisione dagli studi socio-economici di area marginalista. Fu infatti Friederich von Hayek, capostipite della scuola economica austriaca e premio Nobel per l’economia, a proporre per primo di elargire dei buoni che i genitori potessero consegnare alla scuola di loro scelta, affermando che ‹‹lo Stato dovrebbe provvedere al finanziamento di base e a garantire uno standard minimo per tutte le scuole in cui potrebbero essere spesi i suddetti buoni››.
L’idea fu ripresa nel 1955 da un altro premio Nobel, Milton Friedman, capofila della cosiddetta scuola di Chicago, che pure si poneva nel solco liberista della scuola austriaca di cui rappresentò un’evoluzione in senso anti-statalista. Non a caso in Italia i primi fautori del buono scuola furono, a metà degli anni Settanta, gli economisti di scuola liberale del “Gruppo di Milano”, di cui il maggior esponente fu il compianto ex ministro degli Esteri, Antonio Martino.
Da quanto detto finora, emerge chiaramente come il buono scuola sia stato concepito come strumento atto a realizzare la libertà di scelta del soggetto a cui è demandata in via prioritaria e infungibile l’educazione dei figli: il genitore. Niente ha a che vedere con il sostegno ai redditi bassi o medio-bassi e con il finanziamento del diritto allo studio per gli indigenti. Al contrario, il buono scuola vorrebbe realizzare la piena libertà di scelta educativa per tutti, senza condizionamenti economici e proprio in questo modo ridurre la stratificazione socioeconomica nel sistema di istruzione pubblico.
I dati provenienti dai Paesi europei dove le scuole non statali ricevono aiuti da lungo tempo mostrano che il livello socioeconomico medio degli studenti delle scuole paritarie non è diverso da quello delle scuole statali. E questo proprio perché tra i criteri di scelta della scuola il fattore economico o il quartiere di provenienza non hanno rilevanza e la scuola non statale può essere liberamente scelta da tutti. Basta prendere il caso dell’Olanda, che ha addirittura inserito la parità economica nella Costituzione e che mostra l’assoluta irrilevanza delle condizioni socioeconomiche degli studenti fra scuole statali e non. Ma si potrebbero portare decine di altri esempi, essendo rimasta l’Italia l’ultima, insieme alla Grecia, nella Ue a non avere una forma di parità economica del sistema scolastico. In tutti gli altri è stato il finanziamento pubblico del sistema scolastico a ridurre, fino ad annullarle, le differenze di ceto e di capacità di spesa tra studenti provenienti da gruppi sociali e familiari diversi, realizzando così una reale democraticità del sistema scolastico.
Non solo, tra i Paesi che raggiungono risultati superiori alla fascia media del progetto Pisa dell’Ocse, i due terzi dispongono di una forma di finanziamento alle scuole non statali. E questo senza nessuna ripercussione negativa per le casse dello Stato, dal momento che sostenere direttamente i costi per edilizia e sicurezza di tutte le scuole, nonché retribuzione e formazione dei docenti, fino alla digitalizzazione dei sistemi di insegnamento, ha un costo stimato ben superiore al sostegno garantito alle scuole paritarie, che assume generalmente una di queste tre modalità: retribuzione diretta dei docenti, sostegno diretto o indiretto dei costi operativi e sovvenzione dei costi di investimento in strutture e attrezzature. A volte, come in Francia, si verifica una combinazione di queste tre modalità. Auspichiamo che il dibattito sul buono scuola, strumento senz’altro utile ma non sufficiente, possa guardare proficuamente a ciò che altri hanno già realizzato da tempo.
Umberto Palaia, presidente Agesc
Avvenire, 11 ottobre 2024