Che siano misurate in numeri o in giudizi sintetici, come è tornata a fare la primaria, le competenze degli studenti sono ancora un ottimo indicatore per valutare il buon funzionamento della scuola. È riduttivo, ma imprescindibile. E l’apprendimento degli scolari italiani, con profonde voragini che dividono Nord e Sud, è pressoché stabile da un paio di decenni su livelli medi che non eccellono rispetto ai Paesi Ocse. A testimoniarlo è il programma Pisa (Programme for International Student Assessment) che periodicamente sottopone gli stessi test ai quindicenni di oltre 70 Paesi, monitorando la loro evoluzione nel tempo. In un solo campo, drammaticamente, l’Italia primeggia riportando (nel 2022) la maggiore differenza di competenze in matematica fra femmine e maschi, a vantaggio di questi ultimi. Sono 21 punti di distacco contro una media Ocse, già non eccellente, di 9 punti.
«La forbice si allarga con l’avanzare dell’età – spiega Silvia Benvenuti, professoressa di Didattica della matematica all’Università di Bologna – ma è impressionante che la differenza sia rilevabile già fra i più piccoli». E non serve scomodare le sei donne che negli anni ’40 programmarono il gigante Eniac, uno dei primi computer della storia, per comprendere che il gender gap non ha radici biologico-naturali. Anche ottant’anni fa, però, i meriti per lo sviluppo del proto-calcolatore furono attribuiti solo a due uomini. E tanto basterebbe per capire che, forse, le motivazioni di un divario così profondo stanno negli stereotipi che ancora talvolta si annidano fra i banchi di scuola.
«Sembrava una battuta, ma spesso mi sono sentita dire “sei brava perché ti impegni”, mentre i compagni maschi erano bravi perché talentuosi», racconta Simona Felice, 24 anni, che si è trasferita da Catania a Pisa per laurearsi in matematica. Già dagli anni del liceo, però, le sue capacità si erano rese evidenti nelle competizioni interscolastiche. «Quando giunsi alle gare nazionali, a Cesenatico, c’era una ragazza ogni dieci partecipanti», ricorda amareggiata. E il motivo, secondo la sua esperienza, è tanto triste quanto evidente: «Per via di questi continui stereotipi, una studentessa si convince da sola di non essere capace. Le conseguenze si vedono anche all’Università: se parli con una ragazza, prima dell’orale avrà studiato il 99% del materiale del corso. A un ragazzo potresti anche sentir dire “qualcosa so e il resto improvviso”».
Niente cambia ai più alti livelli di competizione: nella storia della Medaglia Fields, il corrispettivo del premio Nobel per la matematica, dal 1936 solo due donne hanno ottenuto il massimo riconoscimento. E la prima, l’iraniana Maryam Mirzakhani, lo ha vinto nel 2014. Secondo la professoressa Benvenuti, il motivo risiede ancora una volta nella formazione scolastica: «Si perpetrano stereotipi culturali che esercitano effetti negativi – spiega la professoressa Benvenuti –. Le ragazze sembrano manifestare livelli più alti di ansia. È una serie di fattori metacognitivi, affettivi, emotivi e socioculturali che entrano a gamba tesa nella sfera cognitiva e nelle performance». Tradotto: a forza di sentirlo ripetere, lo stereotipo si trasforma in realtà e la scuola in insicurezza.
«Alle superiori l’adolescenza mi è caduta addosso come un macigno – racconta Roberta, che ora ha 33 anni ed è laureata in Matematica con un passato da docente -. Il rendimento in matematica era sufficiente ma non eccelso e non mi sono mai sentita supportata dall’insegnante. Non credo dipendesse dal fatto che fossi una femmina, piuttosto lo attribuisco a una mentalità arretrata che divide le persone in “portate per le Stem” e “portate per le discipline umanistiche”». Le prime, però, troppo spesso sono maschi e le seconde femmine. Non è un caso che, nei test Invalsi, le studentesse ottengano risultati migliori nelle prove di italiano. E lo è ancora meno che le donne iscritte a corsi di laurea in discipline Stem siano una minoranza del 40% (fonte Anvur), con numeri che sono fermi da 10 anni. La prima conseguenza è che nei settori strategici per lo sviluppo tecnologico la prevalenza maschile è già netta: a lavorare sull’intelligenza artificiale, al momento, sono al 78% ricercatori uomini contro il 22% di donne (dati Csw 67 – Onu). La seconda è economica: in Italia, dove il gender pay gap si aggira attorno al 10% (dati Odm Consulting), i settori più finanziati rischiano di restare appannaggio degli uomini. Il mondo accademico non fa eccezione.
A Silvia Benvenuti è bastato uno sforzo di memoria per dipingere un quadro desolante: «Mi sono messa a fare due conti – confessa – e mi sono resa conto che la mia istintiva percezione di parità non era corretta. Nei dipartimenti di matematica in cui ho lavorato la differenza era netta: a Camerino erano 9 donne contro 11 uomini, a Bologna 33 donne contro 72 uomini e addirittura a Pisa 15 donne contro 72 uomini. Man mano che avanziamo nella carriera, non è più una questione di formazione ma di modelli sociali. Esistono differenze di retribuzione a parità di compito».
Ma se nella matematica qualcosa si sta muovendo verso la parità, non si può dire lo stesso per le altre discipline Stem. Informatica, in primis. Secondo un’elaborazione di Woman4 su rilevazioni Ocse 2022, solo il 14,5% delle persone occupate con formazione in ambito Ict (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) in Italia sono donne. Perciò, il consiglio della professoressa Benvenuti è di ripartire da esempi di «affermazione femminile» come Maria Colombo e Cristiana De Filippis, le due ricercatrici under 40 che a luglio hanno vinto il premio Ems, il più prestigioso riconoscimento europeo in matematica. Perché dalle loro storie anche le giovani studentesse possano trarre ispirazione, a partire dalle scuole: «La mia insegnante delle medie mi ha fatto entusiasmare per la matematica ed è lei il motivo per cui oggi faccio quello che faccio – racconta Adele Maltempo, studentessa universitaria –. L’affinità con la professoressa, l’assenza di pressioni e le parole di soddisfazione hanno acceso la mia passione per la matematica».
Andrea Ceredani
Avvenire, 11 ottobre 2024