“Credere può essere un comportamento molto ragionevole”. Parola di Francesco Botturi, già ordinario di Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano, che per il Sir traccia un ritratto in chiave contemporanea del card. John Henry Newman, in occasione della canonizzazione, celebrata in piazza San Pietro il 13 ottobre 2019.
Nel pensiero di Newman, la fede è in stretto rapporto con la ragione: in che modo si articola questo rapporto, a livello filosofico e teologico, e come “parla” all’uomo contemporaneo?
Newman potremmo anche definirlo “cantore” dell’esperienza della fede, del pensiero (filosofico e teologico), della verità, della storia (della salvezza). Newman è importante ed attuale, perché ripropone i grandi interrogativi e le grandi risposte dal punto di vista dell’uomo come “soggetto”. In questo egli è un autore “moderno”, perché ha compreso che tutto il patrimonio della saggezza e della sapienza cristiane tradizionali andava ripensata dal punto di vista dell’esperienza che il soggetto umano ne fa: la verità non sta a sé, di fronte e contrapposta come un oggetto estraneo a un soggetto separato, e reciprocamente; piuttosto la verità è il legame che unisce come luce intelligibile che ha in Dio la sua origine. Al fondo della verità allora vi è sempre qualcosa di religioso, a cui lo spirito umano deve sottomettersi con venerazione.
Il contesto culturale “laico” dell’epoca non era certo favorevole. Come ha agito Newman in proposito?
La sensibilità religiosa di cui ho detto, infatti, era avversata dal “liberalismo” filosofico, culturalmente assai diffuso. Perciò oggetto di polemica sempre sotteso all’opera newmaniana è il liberalismo, considerato espressione di uno “spirito di incredulità”, che pervade tutto. Per il liberalismo non c’è trascendenza della verità, ma solo una verità a misura del limite umano, che ha il suo paradigma nella ragione scientifica. Fuori di questo “razionalismo” resta spazio solo per il “sentimentalismo”; tutto ciò che è contenuto di esperienza umana ̶ anzitutto religiosa e morale ̶ non ha verità, ma è solo opinione soggettiva, credenza che va semplicemente tollerata. In rapporto a questo il Saggio in auto di una grammatica dell’assenso (1870) ha un particolare valore. Di fronte all’obiezione “liberale” circa la verità della religione che non rispetta i canoni del sapere scientifico e quindi non esiste, Newman rivendica, a partire dalla comune esperienza, l’esistenza di un sapere veritativo non dimostrativo, ma non per questo irrilevante: quel sapere a cui è assolutamente ragionevole dare il proprio “assenso” perché si ha fiducia nella sua fonte e perché ha il sostegno della convergenza di indizi e di probabilità. Una grande parte della nostra vita è vissuta ragionevolmente a tutte le età in un regime di fiducia. Non esiste solo la razionalità dimostrativa, che da premesse deduce conclusioni, ma anche la ragionevolezza indiziaria e testimoniale che induce l’assenso da segni. Credere può essere un comportamento molto ragionevole.
Il primato della coscienza, per Newman, ha sempre a che fare con la ricerca della verità: una posizione, la sua, che è l’esatto contrario del relativismo propugnato dalla “società liquida”…
Certamente. La coscienza di cui parla Newman non è la semplice consapevolezza di sé e neppure la coscienza morale del bene/male, ma è la capacità di accesso consapevole e libero alla verità; la coscienza secondo Newman è, la componente soggettiva ̶ potremmo dire ̶ della verità. È nella coscienza che si svolge il “dramma” della verità a cui l’uomo è tenuto e in cui l’uomo gioca le sorti della sua sincerità e in definitiva della sua dignità. Come avevano già detto i gradi scolastici a partire dal san Tommaso d’Aquino, anche per Newman l’uomo è vincolato alla sa coscienza. Questa non è affatto il luogo dell’arbitrio, ma dell’impegno responsabile con ciò che appare appunto alla coscienza; così che anche qualora la coscienza risultasse inconsapevolmente erronea, il soggetto è tenuto a pensare e a operare secondo la sua coscienza. È noto in proposito il passaggio della Lettera al duca di Norfolk (1874) in cui Newman afferma: “Se fossi obbligato a introdurre la religione [come oggetto di] brindisi dopo un pranzo […] brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa”. Nulla a che fare con l’irriverenza, bensì con la riverenza nei confronti del sacrario della verità che è la coscienza, solo rispettando il quale è possibile anche brindare con sincerità anche al Papa. È evidente che tutto ciò implica una profonda responsabilità morale circa il rispetto dovuto alla coscienza propria e altrui e insieme circa la formazione della coscienza. Questa può anche risultare erronea, ma deve sempre essere retta. È attraverso questa valorizzazione forte della coscienza soggettiva, che Newman combatte efficacemente il soggettivismo e il relativismo.
Newman fu un uomo del suo tempo, che seppe leggere anche le pieghe più controverse della storia, non solo personale. C’è in lui una sorta di precursore della lotta al secolarismo?
Sarebbe necessaria una risposta molto articolata. Ne formulo solo un aspetto importante. Una delle forme del secolarismo è lo storicismo, come ulteriore attacco alla verità: il mutamento storico smentisce ogni pretesa di verità perenne (sarà il problema che esploderà con il “modernismo”). Newman ha anticipato una risposta assai rilevante. Il cambiamento storico non è obiezione alla verità, ma ne rivela un essenziale aspetto dinamico. Nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1846) scrive: “ogni idea se è vitale si sviluppa necessariamente” e questo è “principio” fondamentale per il cristianesimo. Così il dogma (definizione magisteriale della verità cattolica) non è contraddetto dagli sviluppi della sua verità, nuovi aspetti impensati in continuità con il nucleo dell’insegnamento tradizionale.
M.Michela Nicolais
Sir, 12 ottobre 2019