UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Nell’Erasmus vive lo spirito del Grand Tour

Una riflessione di Chiara Rabbiosi, geografa dell’Università di Padova
1 Febbraio 2022

Col Grand Tour sin dal secolo XVII i “rampolli” dell’aristocrazia britannica, e poi le classi nobili francesi, tedesche e nordeuropee, viaggiavano verso il Sud dell’Europa per conoscere la culla della cultura classica. Alla ricerca dell’arte, del bello, delle diversità di ambienti e paesaggi, si associava anche qualcosa del rito di passaggio. L’incontro con l’altro – qualcuno e qualcosa percepiti come esotici – era un aspetto “esperienziale” fondamentale, per usare un termine di moda nel vocabolario del turismo contemporaneo. Sull’onda di quella tradizione, infatti, nacque il fenomeno del turismo, alla base del quale vi è sempre un misto di desiderio di conoscenza, evasione e semplice curiosità.

Col tempo il Grand Tour perse l’aspetto iniziatico ed elitario, complice anche la nascita delle grandi compagnie di viaggi organizzati fra Otto e Novecento. Nel tempo non solo sono cresciuti i flussi, ma sono esplose anche le offerte commerciali che comportano massificazione di pratiche e luoghi. Solo la pandemia ha messo un freno, riportando l’attenzione sul turismo domestico e altre forme di viaggio verso luoghi rilevanti sul piano storico e ambientale lungo rotte meno note al turismo di massa. Ma accanto a questo mi sembra rilevante un altro fenomeno che in parte si avvicina allo spirito del Grand Tour di un tempo: quello degli studi all’estero.

Lanciata nel 1969 da Sofia Corradi, consulente della Conferenza dei Rettori delle Università italiane, quasi vent’anni dopo l’idea di promuovere scambi tra studenti ha dato luogo al Programma Erasmus, cui partecipano ogni anno decine di migliaia di ragazze e ragazzi. È proprio questo uno degli obiettivi che si erano proposti i Padri dell’Unione Europea: che attraverso la mobilità interna al continente e la reciproca conoscenza tra giovani si consolidasse l’identità europea. Mi sono occupata recentemente di una ricerca con studentesse e studenti provenienti da diversi Paesi, anche extraeuropei. Tutti vengono attirati dall’immaginario che del continente hanno potuto maturare attraverso letture, film e testimonianze. Proprio come all’epoca del Grand Tour, si tratta di un flusso con un discreto capitale economico e sociale di partenza rispetto ad altre mobilità migratorie.

Durante il loro soggiorno, che può essere di qualche mese o di alcuni anni, gli studenti ricercano l’incontro con le bellezze delle natura e delle città storiche, ma anche con la vita quotidiana. È interessante considerare come essi ci guardano. Sono molto attratti dalla dimensione sociale. Come nel Grand Tour, più che nelle esperienze di turismo moderno del XIX secolo o di turismo globale e di massa successivo, in questo tipo di mobilità l’attenzione per le persone appare più viva. Alcuni studenti sono rimasti amaramente sorpresi dalle grandi differenze socioeconomiche che hanno trovato. Altri hanno osservato che in Europa ci sono pochi bambini, ma tanti animali domestici: gli animali sostituiscono i figli? I giovani viaggiano, studiano, si specializzano. Alcuni si fermano a lavorare nei luoghi dove hanno studiato. Tutti apprendono molto del nostro continente, che agli occhi degli extracomunitari, ben più che ai nostri, costituisce un’unità pur con tutte le sue articolate differenze. I giovani stranieri ci aiutano a guardarci e a comprenderci meglio. Ci stimolano a capire l’importanza di concepire il “senso dei luoghi” in maniera plurale e aperta, intrisa di un senso globale del locale, come sostiene la geografa Doreen Massey. Questo significa essere coscienti della nostra storia, ma anche desiderosi che il nostro continente non sia solo “vecchio” ma anche aperto al futuro, riconoscendone le tensioni. Un nuovo Grand Tour aperto agli aspetti anche problematici dell’appartenenza al mondo contemporaneo.

Chiara Rabbiosi

Avvenire, 30 gennaio 2022