Da ragazzini si vive di miti, di eroi. Io ne ho avuti tanti: dal cantante Luciano Ligabue al calciatore Paolo Maldini, dal ciclista Claudio Chiappucci al gruppo rock dei Litfiba. Abbiamo bisogno di persone in cui identificarci, a ogni età. Ci servono modelli da seguire, che possano ispirarci, che possano spingerci a essere migliori.
Ma chi è, davvero, un eroe? Quando ero alla scuola media mi stupivo di come io e i miei insegnanti applicassimo questa parola a persone molto diverse. Per me un eroe era chi si sapeva imporre con la sua forza, con le sue qualità, con i suoi numeri eccellenti. Eroe era uno che spiccava, capace di emergere rispetto alla massa di persone mediocri. Una persona famosa, ammirata, vincente.
I miei prof invece citavano come eroi persone sconfitte, finite male: Giovanni Falcone, Salvatore Borsellino, Martin Luther King. Certo, persone con dei valori, che avevano lasciato una importante eredità, ma che alla fine per questi valori avevano pagato un prezzo troppo salato. Io ammiravo queste figure, ma come da lontano: ascoltavo i racconti su di loro, ne ero colpito, ma non ero così convinto di voler assomigliargli.
Quando sono diventato prof di lettere alle superiori e ho cominciato a insegnare epica al biennio, il tema dell’eroe è riemerso con prepotenza nella mia vita. Chi è un eroe? Lo chiedo spesso nelle mie classi. L’epica stessa fornisce diverse risposte. Gli eroi dell’epica omerica, in particolare Achille e Ulisse, sono certamente molto simili a quelli a cui avrei voluto assomigliare io alla scuola media. Sono personaggi vincenti, che sanno imporre il loro carisma e la loro volontà. Che, da soli, schiacciano tutti coloro che tentano di opporsi. Eroi che vincono sempre, che superano ogni avversità. Eroi spesso soli, ma ammirati ed esaltati da tutti.
Durante la guerra di Troia, Agamennone, capo spedizione degli achei, sottrae la schiava Briseide ad Achille, il più forte dei guerrieri del suo esercito, per prenderla con sé. Achille è furente. Per vendicarsi abbandona il campo di battaglia e senza di lui gli achei subiscono innumerevoli perdite. Alla fine Achille torna a combattere, ma in primo luogo non per pietà nei confronti dei suoi compagni, non perché ha a cuore la comune sorte: combatte soprattutto per vendicarsi contro il troiano Ettore, che ha ucciso il suo amato compagno Patroclo.
Achille è un eroe strepitoso, un mito per tutte le generazioni, ma ha molto più a cuore il proprio onore che il bene comune. Tutto ciò vale spesso anche per Ulisse, che con la sua astuzia finisce sempre per trionfare. Tornato a Itaca, la sua isola, vent’anni dopo essere partito per la guerra di Troia, sconfigge i proci, pretendenti alla mano di sua moglie Penelope, li uccide tutti e riprende il potere. Ciò che muove Ulisse è soprattutto la difesa del suo onore personale: la riconquista della sua reggia, di sua moglie, della sua famiglia e del suo spazio vitale, che gli è stato sottratto. Achille e Ulisse sono gli eroi dell’affermazione di sé contro tutto e contro tutti.
C’è però un altro modo di essere eroi. Per scoprirlo bisogna lasciare l’epica greca e viaggiare in quella latina, fino ad incontrare l’Eneide di Virgilio. Enea, il protagonista, è un eroe molto diverso da Achille e Ulisse. Il troiano Enea vede la sua città distrutta e saccheggiata dagli achei. L’onore lo spinge a combattere, a morire senza cedere. Ma il destino ha per lui un’altra missione, più lunga e faticosa. C’è un nuovo futuro possibile per il quale sacrificarsi. Così Enea prende suo padre Anchise in spalla e suo figlio Iulo per mano e parte, obbedendo a quel destino. A Troia lascia tutto, compresa l’amata moglie Creusa, che non sopravvive alla distruzione della città. Insieme a un gruppo di superstiti troiani, si imbarca e prende il largo.
Dopo diverse peripezie, Enea giunge a Cartagine, dove regna Didone. Cartagine è una nuova città, Didone è completamente dedita a costruirla, ma si innamora perdutamente di Enea. Enea contraccambia l’affetto: i due si legano, dimenticano il loro compito e il loro destino. Il poeta Virgilio scrive che, mentre Didone è innamorata, le torri iniziate non crescono più, i giovani non si esercitano, porti e bastioni non vengono adeguatamente muniti. Didone ed Enea antepongono il loro amore al bene comune. Ma gli dei, inesorabili, richiamano l’eroe troiano: deve riprendere il mare, completare la sua missione. Enea è distrutto: si trova a scegliere tra il suo desiderio personale, restare con Didone, e ciò che è chiamato a fare per il suo popolo, che ha bisogno di una nuova terra, di un futuro ancora possibile.
Enea decide: lascia Didone, sceglie l’incertezza del viaggio. L’esito è tragico: Didone si toglie la vita con la spada che Enea stesso le ha regalato, simbolicamente uccisa dall’amore per lui. Dal mare Enea scorge il fuoco della pira funebre della regina di Cartagine, si dispera. Ritroverà l’amata Didone quando scenderà agli inferi: lei si mostrerà dura come roccia, fredda come ghiaccio. Non degnerà Enea di una parola, si ritirerà insieme al suo primo marito Sicheo, lasciando solo l’eroe. L e sventure di Enea non finiscono qui. Sbarcato sulle coste del Lazio, troverà ad attenderlo una nuova guerra, che dovrà combattere e vincere. La sua vita di sofferenze e di rinunce porterà frutto solo dopo la sua morte: i suoi discendenti fonderanno Roma, destinata per sempre, secondo Virgilio, a garantire al mondo una pace universale.
Enea è un eroe molto simile a coloro che i miei prof delle medie ponevano in questa categoria. Ora, da insegnante, li capisco molto meglio. Capisco che il modo di essere eroe di Enea è superiore a quello di Achille e Ulisse, perché, seppur nella fatica e nel dolore, costruisce di più, porta più frutto, lascia una eredità migliore e duratura. Enea è l’eroe della dedizione, del dono di sé, del sacrificio di sé per gli altri, per il popolo, per il bene comune. Non a caso nell’etica romana il buon cittadino era colui che anteponeva il bene dello Stato (cioè la Res Publica, ciò che è di tutti) all’interesse personale.
Non sono solo belle parole e begli ideali. Falcone e Borsellino davvero hanno vissuto così: in costante pericolo, impossibilitati a condurre una vita normale, vittime della più brutale violenza. Eppure le loro esistenze sono state un dono per lo Stato, la loro opera è feconda anche oggi. Lo stesso si può dire di Martin Luther King, anch’egli assassinato e prima umiliato, percosso, schiacciato. Ma il pastore King di fronte alle violenze pregava e cantava, regalando a tutti noi anche oggi, in quest’epoca di armi e violenza, un mirabile esempio di amore disarmato e fecondo.
Mi è capitato di recente di assistere a una conferenza su Giacomo Matteotti. Il 2024 è il centenario del suo assassinio ad opera dei fascisti. In quella conferenza si è parlato del politico, ma anche dell’uomo. Un uomo separato dalla sua famiglia; lontano da Velia, la moglie che amava, e dai suoi figli. Un uomo minacciato e vessato in ogni modo, che ha sacrificato la famiglia e gli affetti più cari per il bene comune, per condurre fino in fondo la sua missione. Oggi gli sono dedicare scuole, strade, piazze: i semi da lui gettati portano frutto oltre la sua stessa vita. C i sono tanti Enea, anche oggi, anche tra i banchi di scuola. La mia allieva che si fermava molti pomeriggi a spiegare fisica e latino ai compagni più in difficoltà, il mio allievo volontario al doposcuola della parrocchia per sostenere i bambini nello studio, il capo scout che dedica buona parte del suo tempo e delle sue vacanze per accompagnare nel cammino i lupetti del branco. Tutti possiamo essere l’Enea di qualcuno.
A noi prof resta il compito di raccontare e di testimoniare che tutto questo è possibile. Dobbiamo accompagnare i nostri alunni a fare il grande passo che porta da Achille ad Enea, dal desiderio di affermare sé stessi alla gioia di donarsi agli altri, perché solo donandosi agli altri si trova la strada per essere realizzati e felici.
La società si costruisce se tutti proviamo a essere eroi del noi, più che eroi che impongono il proprio io. Questo cambia anche la visione di che cos’è davvero lo Stato: non un’entità esterna vessatoria, dalla quale devo pretendere ciò che mi fa comodo e contro la quale devo sempre lamentarmi se non lo ottengo, ma una vera Res Publica, alla quale ciascuno è chiamato a dare il proprio contributo, perché tutti possano vivere meglio. Perché si aprano orizzonti ancora possibili, anche per le generazioni che verranno.
Marco Erba, Insegnante e scrittore
Avvenire, 24 settembre 2024