Nella situazione attuale questa idea «sic et simpliciter è una proposta inattuabile, non è che è inaccettabile, è irrealizzabile». Il problema della carenza dei medici esiste, «come pure il desiderio di tanti giovani che vogliono fare i medici è un fenomeno sociale, perché 55mila persone ogni anno vengono escluse dai test di ammissione». Per il vicepresidente dell’Aidu (Associazione italiana docenti universitari) e già presidente dei collegi di Area medica, Alfonso Barbarisi, «il problema esiste e va risolto in qualche modo, ma aprire da un momento all’altro ad una marea di persone la facoltà di Medicina metterebbe in grossa difficoltà gli atenei».
Perché?
Non è solo una questione di volontà, ma ci sarebbero pochi professori e poche aule e si creerebbe fisicamente il problema di dove mettere tutti questi studenti aggiuntivi nelle università. Inoltre, aumentando i numeri, la formazione scadrebbe in modo eccessivo. Credo che la questione vada affrontata più a monte, con l’orientamento, cioè bisogna far sì che l’ammissione a Medicina – di qualsiasi numero si parli – sia un ingresso consapevole da parte dei ragazzi. Anche perché non tutti quelli che hanno superato l’esame di ammissione, e che dunque hanno una loro dignità culturale, poi sono persone che seguono con piacere, assiduità e profitto i corsi. Perché ci sarà anche la necessità di formare più medici prossimamente, ma 55mila studenti l’anno potenzialmente in più sarebbe comunque inaccettabile in una programmazione adeguata.
Cosa servirebbe?
Certamente occorre aumentare il numero nelle ammissioni, ma contemporaneamente serve finanziare le università per cercare di formare al meglio questo numero crescente di dottori. Fondi per uomini e strutture insomma, consideri che nel 2020 gli atenei perderanno circa il 40% dei docenti ordinari o associati e anche se ora sono stati aumentati i posti nei concorsi, per formare un insegnante universitario ci vuole del tempo. In più bisogna allargare anche l’attività clinica e pratica, perché più persone nelle facoltà di Medicina implica di avere anche maggiori disponibilità nelle strutture ospedaliere, cioè i 6mila posti di scuole di specializzazioni più i 3mila per la medicina generale non basteranno. È tutto un sistema che insomma va gradualmente ripensato, implementato e adeguato alle nuove esigenze.
Quale sarebbe la strada?
Bisogna partire dal confronto con i rettori e le associazioni dei docenti universitari, pensare ad una formazione anche negli ultimi due-tre anni di liceo magari con il volontariato in corsia perché i ragazzi si rendano conto di cosa stanno scegliendo come facoltà. Altrimenti creeremo sì più medici ma poco motivati, poco preparati e questo non va bene per la salute pubblica, a cui si aggiungerà un esercito di frustrati che non è riuscito a passare i test di ammissione. Infine non va dimenticato che quello ipotizzato dal governo è quasi un sistema alla francese, ma nella stessa Francia non sono più tanto contenti di questo modello. L’Italia invece dovrebbe sposare il percorso della programmazione adeguata dei bisogni di medici, poi formare con convinzione i ragazzi e, terzo, dare fondi agli atenei.
Alessia Guerrieri
Avvenire, 17 ottobre 2018