Occorre ridare il giusto significato alle parole e ai verbi, smetterla di addolcirli, addomesticarli; anche se ci fanno male, hanno il diritto a esprimere, o, almeno, ad avvicinarsi alla verità. Santo Romano non è morto, è stato assassinato. A San Sebastiano al Vesuvio, cittadina alle falde del vulcano napoletano che ci affascina e ci spaventa. Il suo assassino ha qualche anno in meno di lui, un minorenne, quindi, anche se ormai non sappiamo più dire con esattezza dove passi la linea di demarcazione tra la minore e la maggiore età. L’assassino ha ucciso Santo e ha tentato di uccidere i suoi amici in seguito a una lite scoppiata per un motivo talmente banale da incutere spavento nei genitori con figli adolescenti, la cui età cronologica va ancora d’accordo con quella esistenziale. L’assassino è da poco uscito dal carcere minorile, ha alle spalle una famiglia problematica, suo padre è in carcere; si atteggia a piccolo guappo, le foto sui social lo ritraggono con le pistole in mano, vere o finte cambia poco.
La situazione è talmente seria che il prefetto di Napoli, Michele Di Bari, ha convocato, domenica scorsa, nella casa comunale di San Sebastiano, un comitato straordinario di ordine e sicurezza allargato, mentre, nella chiesa parrocchiale, l’arcivescovo di Napoli prega e parla a migliaia di giovani accorsi all’invito del parroco, don Enzo Cozzolino. Una fiumana di persone, poi, sfila per le vie del paese. Ci sono anch’io. E mi tornano alla mente alcuni versi di quel grande poeta che fu Clemente Rebora: «Qualunque cosa tu dica o faccia c’è un grido dentro: non è per questo non è per questo. E così tutto rimanda a una segreta domanda, l’atto è un pretesto…». Sembra che la causa scatenante che abbia fatto saltare i nervi al giovane assassino sia stata il pestaggio di un suo piede. Ma così? O non fu solo un pretesto? Al ragazzo con la pistola interessava davvero la sua scarpa o aveva un malessere interiore, un’invidia per le fortune altrui, una rabbia che gli covava dentro forse fin dall’infanzia? Perché nemmeno il carcere di Nisida, con i suoi professionisti attenti ai giovani ospiti, è riuscito a sortire qualche effetto su di lui? C’era in questo ragazzino un “grido dentro” che non siamo stati capaci di intercettare? Possiamo ritornare a parlare, almeno noi cristiani, di Dio ai nostri figli? Siamo in grado di far loro toccare con mano la trasformazione che si scatena nelle nostre vite quando gli apriamo la porta del cuore? Qualche ingenuo pensò e scrisse che eliminando Dio dal proprio orizzonte, l’uomo sarebbe stato più libero, più autentico. È accaduto l’esatto contrario.
«Se pò campà senza sapè pecchè ma non se pò campa senza sapè pe chì», dice un antico detto napoletano. Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi. L’uomo non basta a se stesso. Soli si muore. Anche questi ragazzini che spaventano hanno il terrore della solitudine, la propria banda gli è indispensabile. «I preti debbono chiedersi perché le chiese sono vuote », ha detto, domenica, uno dei partecipanti al tavolo. Giusto. Lo facciamo. Ammettiamolo, ci siamo illusi – atei, agnostici e cristiani di facciata – che la fede fosse un di più, un orpello, al massimo un’emozione, qualcosa da tirare fuori in certe occasioni per poi continuare a vivere come “se Dio non ci fosse”. Ne stiamo pagando il prezzo. Espulso Dio dal trono che gli spetta di diritto, tutto va in frantumi. Quel trono fa gola a tanti, non resta mai vuoto, qualcuno o - peggio - qualcosa lo occuperà. Ed eccola qua, la scarpa, per quale uccidere e giocarsi la vita. Togli “questa” scarpa a “questo” ragazzo e si sentirà perduto. Strappagli dalle mani la pistola e avrai di fronte il ragazzino fragile con il cuore zeppo di rabbia e di livore.
La scarpa, la pistola, gli abiti firmati, la moto potente, altro non erano che pretesti. Questi ragazzi gridano un malessere che non sanno esprimere a parole. Lo vogliamo capire? Non appartengo alla lista dei buonisti. Le pene debbono essere certe e severe. Ma, per carità, riprendiamoci i nostri spazi, ripopoliamo i nostri quartieri e le nostre chiese, corriamo in aiuto ai nostri figli. E allarghiamo lo sguardo e il cuore ai meno fortunati. Cacciamo dai loro cuori la rabbia, l’odio, la sete di vendetta, prima che si traducano in violenza bieca. Parliamogli di Dio. È quello che cercano pur senza saperlo.
Don Maurizio Patricello
Avvenire, 5 novembre 2024