Caro Avvenire, mia figlia di 5 anni (ne compie 6 fra poco) l’altro giorno ha detto a me e mia moglie: «Oggi è stato il giorno più bello della mia vita». Noi le abbiamo chiesto: come mai? cosa è successo? E già nel porre la domanda ci interrogavano in silenzio, quasi sorridendo tra noi, su quale fatto minimo e bizzarro potesse aver mosso i pensieri di una bimba. A quell’età, poi... Lei ha risposto: «Mi avete comprato la cartella». Già. In effetti è stato il primo vero acquisto importante della sua vita, qualcosa tutto solo per lei e che ora la fa sentire finalmente grande, non più solo “la piccolina di casa”. Una tappa importantissima. E quelle parole mi hanno fatto pensare, ora che ripartono le scuole, e che per migliaia di bambini e ragazzi incomincia o ricomincia un percorso di studio, a quale responsabilità hanno gli insegnanti verso questi nostri figli. E a quanta ne abbiamo noi. Forse sarebbe bene che tra le tante problematiche che interessano la scuola potessimo avere tutti sempre a mente, come prima cosa, le attese che vive un bambino con la sua cartella nuova, mentre aspetta di varcare il cancello per il suo primo giorno di scuola.
Massimo Cattaneo (Milano)
Leggendo questa lettera mi si è materializzata nei pensieri l’immagine remota di una cartella di cuoio rosso con le fibbie dorate, che avevo del tutto dimenticato. La cartella per la prima elementare, quanto mi aveva emozionato. Nei giorni precedenti l’inizio della scuola continuavo ad andare a toccarla, a carezzarne la superficie liscia e lucente, a annusare il profumo del cuoio. Proprio come la bambina del lettore, con quella cartella mi sentivo finalmente “grande”. E ho ripensato all’attesa e all’orgoglio di quel primo giorno in classe: era come se mi si schiudesse un mondo davanti. E a come guardavo quel giorno la maestra, e quanto importante era il suo sguardo su di me, e il suo sorriso.
Ha ragione il lettore, quando parliamo di scuola dovremmo tutti ricordarci della curiosità e della speranza con cui siamo entrati, bambini, in quel mondo. Dovrebbero ricordarselo i genitori e gli insegnanti e i dirigenti del Ministero, là dove si dispone che cosa la scuola debba essere. Con quella memoria in mente, ci ricorderemmo di come eravamo, e sapremmo che ogni alunno, per crescere, ha bisogno prima di tutto di una affezione, di una benevolenza del maestro, che abbia a cuore lui, e ciò che può diventare. E forse proprio questa affezione ai figli, ai figli degli altri, ai figli di tutti, è ciò che sembra più raro di un tempo in questo nostro Paese, di figli sempre più povero.
Come se il destino delle giovani generazioni ci interessasse meno. Come se vivessimo chiusi in un “noi, qui e adesso”, e il dopo di noi non ci riguardasse. Proprio l’altro giorno su “Repubblica” il sociologo Ilvo Diamanti scriveva sul fenomeno dell’emigrazione dei giovani laureati, sotto a un titolo provocatorio: «Ragazzi, non tornate». Ogni anno, attualmente, centomila italiani emigrano all’estero e di questi secondo il Censis quasi 9 su 10 sono laureati. Ragazzi che vanno a cercare una possibilità di vita altrove perché qui non la trovano, o la trovano solo in lavori precari, a termine, sottopagati, con stipendi che non consentono nemmeno di immaginare di farsi una famiglia. Al capolinea di quel viaggio iniziato tanti anni prima con una cartella nuova, per quanti c’è l’amarezza della disoccupazione, del precariato, di una partenza per un luogo lontano. La generazione degli adulti avrebbe buone ragioni per sentirsi colpevole verso i più giovani, lasciati alla provvisorietà, o perfino al nulla, e con la prospettiva di un futuro assai più povero di quello dei padri. Ma, soprattutto, buona parte delle ultime generazioni è stata privata di una cosa ancora più fondamentale: la certezza di essere utili e anzi necessari a questo nostro Paese. Un vecchio amico mi ha raccontato che da ragazzo, da poco finita la guerra, avvertiva su di sé da parte degli adulti uno sguardo fiducioso e positivo: cresci, tu che sei giovane, studia, lavora, c’è bisogno di te, in questa Italia che rinasce. Ecco, dovremmo ritrovare modo, uscendo dall’individualismo in cui in molti ci siamo confinati, di dire ai figli nostri e di tutti: ragazzi, abbiamo bisogno di voi, vi stiamo aspettando. Allora quel viaggio, iniziato con una cartella nuova tanti anni prima, sfocerebbe in un orizzonte buono, dove ogni nozione e ogni titolo di studio è anche in funzione dell’altro, di un prossimo che ha bisogno di noi e noi di lui.
Marina Corradi
Avvenire, 7 settembre 2017