C’è un’ondata di proteste, da parte di studenti, contro le scuole chiuse, chiedono a gran voce di poter rientrare nelle loro aule. Qui non discuto sulla fondatezza e validità di questa richiesta, né è contro chi vieta la didattica in presenza che scrivo questo articolo. Voglio soltanto sottolineare come queste manifestazioni di ragazzi in favore della scuola aperta mostrino un attaccamento degli studenti alla scuola, la voglia di scuola, di banchi, di cattedra, di lezioni, di lavagna: se io fossi un professore in attività, e riconoscessi in qualche foto un mio studente che protesta davanti alla scuola chiusa chiedendone la riapertura, ne sarei fiero, penserei che il legame tra quello studente e la scuola, l’aula, i libri, le lezioni, è costruito ed è solido, ed è su quel legame che verrà edificata la vita del ragazzo.
Questi ragazzi che protestano perché vogliono tornare a scuola recitano slogan ed alzano cartelli. Ho visto un cartello che diceva: «Spegnete i tablet e riaccendete i ragazzi». I tablet sono lo strumento per la scuola a distanza, e secondo quello studente (che parlerà per esperienza personale, suppongo) la scuola a distanza spegne i ragazzi, studenti e studentesse, mentre la scuola in presenza li riaccende. In questo momento, con le scuole chiuse in varie Regioni d’Italia, i ragazzi sono 'vite spente'. Noi (noi-popolo, in generale) abbiamo un’idea sbagliata sul rapporto tra studenti e scuola.
Pensiamo che gli studenti vadano a scuola malvolentieri, e che se viene una bomba e manda in frantumi la scuola gli studenti ballano e saltano. È passato un film per i nostri cinema, qualche anno fa, un film inglese, sull’inizio della seconda guerra mondiale, quando gli aerei tedeschi bombardavano Londra: una scuola viene letteralmente frantumata, sulle rovine fumanti sale un ragazzino di scuola media, il protagonista del film, che alza la faccia al cielo, e sorridendo di gioia esclama: 'Grazie, Adolf!' Tutti noi spettatori nella sala del cinema pensavamo: 'Che bravo regista, e che intuizione sapiente!'. Ma non è vero, e lo vediamo adesso: davanti alla loro scuola chiusa i ragazzi sfilano invocandone la riapertura.
La didattica a distanza non è scuola. Perché (rubo uno slogan ai ragazzi) «la scuola si fa a scuola». A scuola sei in mezzo ai tuoi coetanei, i cervelli formano un unico cervello collettivo, la scuola è la tua famiglia fuori casa, la tua seconda famiglia, la famiglia scelta dalla tua famiglia perché tu riceva quel che devi ricevere e che la famiglia non può darti. (Secondo don Milani, la scuola dovrebb’essere per l’insegnante l’unica famiglia, l’insegnante non dovrebbe avere altri figli). Non sto dicendo 'obblighiamo tutti i ragazzi a fare gruppo', addirittura a 'contagiarsi', sto dicendo anch’io un’altra cosa: la scuola dev’essere trattata come una priorità.
Come su queste pagine si scrive dall’inizio di questa storia, riaprire le scuole in sicurezza deve diventare uno dei primi traguardi del governo, e non importa che governo è, di destra o di centro o di sinistra. Hanno fatto dei test e han trovato che nella scuola a distanza i ragazzi sono più lenti nell’apprendere sia in lettura che in scrittura che nel far di conto. Questo è un danno. Perciò i ragazzi che sfilano chiedendo 'scuole aperte' li guardo con simpatia e con speranza.
Ferdinando Camon
Avvenire, 13 gennaio 2021