Ha suscitato un acceso dibattito la lettera aperta alle famiglie con cui il presidente di Confindustria Cuneo, Matteo Gorla, ha invitato i genitori che si accingono a iscrivere i figli alle superiori a evitare quei percorsi di studio che danno un 'pezzo di carta' ma non assicurano un’occupazione. Nel cuneese servono insomma operai specializzati, non glottologi. Giovedì 1 febbraio 2018 “Avvenire” ha ospitato due pareri contrapposti – di un imprenditore e di uno scrittore – sul tema.
Non so quando e come si è imposta – nel cosiddetto senso comune – l’idea che il sapere debba essere utile. E cioè che la cultura di un essere umano debba avere uno scopo, un impiego, una necessità di funzione. Ridotto a 'competenze' da dimostrare e applicare, il sapere perde la sua maestosa gratuità. E si scivola, senza nemmeno accorgersene, nella convinzione di dover riassestare il sistema scolastico su schemi, come usa oggi, di alternanza scuola/lavoro.
E perché mai? Perché la scuola dovrebbe essere alternata al lavoro? (Sugli effetti concreti di questo tentativo, preferisco glissare). La mia attrezzatura- base di essere umano consapevole, di cittadino sufficientemente attrezzato per stare nel mondo non c’entra con il lavoro che farò. Ne è semmai una premessa astratta. Leggere, scrivere, fare di conto – si diceva una volta. Ma non per lavorare (non serve, per molti mestieri, nemmeno quello): per non essere subalterno, per non essere suddito, per non essere schiavo delle parole e delle scelte altrui. Per guadagnarmi il mio spazio di dignità. Lo capisce perfino Renzo alla fine dei Promessi sposi, quando – a un passo dal 'sugo di tutta la storia' – coglie la necessità, il dovere di spingere i figli allo studio – perché possano vivere senza essere (troppo) schiacciati dal potere degli altri. Alla filanda, tutto sommato, potrebbero essere impiegati senza troppe mediazioni. Ma il mondo è una foresta di segni spesso più intricata di una matassa di lana. È una visione piuttosto greve quella che riconduce costantemente i saperi umani alla domanda 'sì, ma a che mi serve?'. A che mi serve studiare questo? A che mi serve sapere una lingua in più, viva o morta che sia? A che mi serve sapere cosa sono le onde gravitazionali? A che mi serve leggere questo romanzo? A niente, benedetto ragazzo. E questo è il bello. A niente di preciso. A essere vivo, senziente. Un po’ più consapevole, un po’ più allenato a farti domande diverse, a cercare risposte anche al di là del lavoro che ti auguro di trovare presto e al meglio.
Paolo di Paolo, scrittore
Flaubert, non propriamente un imprenditore figlio del peggior capitalismo, asseriva che «in fin dei conti il lavoro è ancora il mezzo migliore di far passare la vita». Spiace vedere ingiuriato chi cerca di aiutare a cercarlo e a crearlo, quel lavoro. Spiace altrettanto vedere attaccato con tanta acrimonia il presidente degli industriali di Cuneo per aver esternato un concetto che se si vuole è perfino banale. Non ha affatto demonizzato lo studio e il sapere, semplicemente ha tentato, con quello scritto, di riportare i giovani ad una dimensione di sano realismo, in un’ottica di piemontese pragmaticità. Il problema non è negli industriali, semmai è in una concezione che svilisce la cultura finalizzandola alla professione. In quest’ottica (che oggettivamente permea la quasi totalità dei giovani) studiare una disciplina equivale – deve equivalere! – all’esercitare poi la professione connessa. Dal momento che questo non è praticabile, ecco una teoria cui sfuggono i confini di disoccupati e inoccupati perché incapaci di accettare un mestiere che si discosta da quanto appreso a scuola o all’università. Se è vero che c’è un diritto all’istruzione, è altrettanto vero che è legittimo (legittimo, non di diritto) ambire a svolgere l’attività nella quale si è competenti. Non è colpa da imputare né agli industriali né al mercato se c’è bisogno più di operai che di filosofi. Il guaio è che queste frustrazioni, che sfociano anche in gesti sconsiderati, vengono proprio dall’identificare il negotium con l’otium, laddove, da sempre, questa tautologia non è mai esistita. Studiare una materia per pura passione non è meno nobile (anzi!) dello studiare per poi trarne un profitto, eppure in una società dove tutto è strumentale e finalizzato, è giusto che ci sia chi palesa quali competenze siano necessarie per poter trovare un’occupazione, indispensabile per elaborare un progetto di vita, di famiglia e realizzarsi. È al contrario un atteggiamento figlio di una mentalità buonista e miope (sia da parte dei genitori che dei figli) il ritenere che chiunque, spesso con risultati assai modesti, una volta conseguito un titolo di studio non possa applicarsi in altre mansioni. Magari prima studiandole, come suggerito nella lettera inviata.
Matteo Salvatti, imprenditore