UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

La scuola del futuro? Quella che educa i giovani al pensiero critico

Le “competenze non cognitive” al servizio della crescita degli studenti
4 Febbraio 2022

L’11 gennaio scorso la Camera dei Deputati con una solida maggioranza (345 votanti, 340 sì, 5 astenuti e nessun no) ha approvato il Progetto di legge 2372 “Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche”.

Nei giorni immediatamente successivi il Sussidiario.net, accoglieva l’approvazione come una positiva proposta di innovazione educativa. Citiamo dall’articolo del 14 gennaio 2022: «L’istruzione - e complessivamente l’educazione - deve riguardare non più soltanto l’insegnamento di contenuti, ma deve avere come focus la persona. (…) Educare le competenze non cognitive vuol dire educare il pensiero critico, la creatività, la comunicazione, la capacità di collaborazione, la coscienziosità, la consapevolezza sociale e culturale, e vuol dire scommettere sulla curiosità, sull’iniziativa, sulla determinazione, sull’adattabilità». Di tutt’altro parere invece Ernesto Galli della Loggia che il 27 gennaio sul Corriere della Sera attaccava l’iniziativa parlamentare con espressioni durissime.

Alle parole positive del Sussidiario, che elogiava finalmente il sistema politico per la raggiunta consapevolezza della situazione grave della scuola, Galli della Loggia si opponeva criticando «le cosiddette soft skills, al cui insegnamento/propagazione dovrebbe piegarsi la scuola per formare il carattere degli allievi». E proseguiva: «Ma non è questo ciò che in realtà la scuola ha sempre fatto? Sì, ma attenzione: finora essa lo ha fatto attraverso i saperi delle sue varie discipline, dispensando ai giovani le più disparate conoscenze e lasciando che poi nell’animo di ognuno di essi quelle conoscenze, i libri letti, i pensieri e le emozioni nati nell’aula scolastica…».

Chi ha ragione? Verrebbe da dire entrambi e nessuno. Purtroppo siamo arrivati a un punto di complessità dei fenomeni scolastici che ne risulta difficilissima la lettura. In tal modo la comunicazione rischia di essere sempre da un lato inquinata da schemi ideologici, dall’altro schermata Con l’approvazione di una legge specifica, le soft skill entrano a far parte a pieno titolo della programmazione degli istituti da pregiudizi e precomprensioni che la rendono quasi impossibile perfino fra quegli stessi che poi alla scuola tengono molto e vedono nella sua crisi un rischio altissimo per la democrazia e la società civile. Il fatto è che ognuno guarda alla scuola dalla limitata prospettiva della propria esperienza, più che abbracciarla in un’ampia visione, estesa non solo rispetto alle diverse fasi della vita che ne sono investite, ma anche dilatata rispetto agli strati sociali e agli ambienti nei quali la scuola pervasivamente penetra.

Così abbiamo chi guarda alla scuola nelle sue fasi più problematiche sul piano educativo, come la primaria e la secondaria di primo grado, dall’altro chi ha introiettato il modello liceale e non si rende conto che non esistono solo i licei, ma che gli stessi licei sono molto diversi fa loro e che il valore educativo delle discipline è radicalmente diverso oggi rispetto al passato. Soprattutto che non sono le discipline il fine dell’insegnamento, ma che attraverso le discipline si insegna qualcos’altro. In altre parole non si può pensare di insegnare le soft skills in sé e per sé. Queste si imparano attraverso le discipline e non è necessaria una legge perché questo avvenga.

Il fatto è che manca un corpo ispettivo serio, capillarmente diffuso e attivo, formato non da burocrati indagatori, ma da persone avvedute e preparate che assistano e guidino culturalmente le scuole e che siano in costante rapporto con le università, le quali università sappiano dialogare con le scuole e non guardino alle aule con il terrore con cui si scrutano i deserti dell’Armenia, né con l’avidità anvurina di chi spera di ricavarne pubblicazioni che non leggerà nessuno. Senza una seria carriera degli insegnanti e un sistema di persone attente al futuro dei giovani, capaci di leggere i segni dei tempi, rischiamo sempre di ridurre le proposte per la scuola a inefficaci grida di un potere impotente o a tragicomiche reprimende che richiamano la triste inutilità della cultura di Don Ferrante.

Avvenire, 4 febbraio 2022