Oltre che scuola di inclusione, solidarietà, cittadinanza, Barbiana era anche luogo di socialità. Soprattutto la domenica, l’aula si affollava dei nostri genitori che raccontavano i loro problemi, gli scontri avuti con i proprietari, le angherie subite. Ogni volta il Priore (così chiamavamo il nostro maestro Lorenzo Milani) ne approfittava per farci una lezione sui meccanismi del dominio e trovare, insieme a noi, strade per ripristinare la dignità. Perciò Barbiana era anche scuola di politica che insegnava come reagire di fronte ai soprusi. In questo contesto, una domenica pomeriggio del mese di febbraio 1965, un amico ci portò un articolo della Nazione contenente il comunicato stampa dei cappellani militari che definiva l’obiezione di coscienza «un insulto alla patria, estranea al comandamento cristiano dell’amore; espressione di viltà'». Al Priore questi giudizi parvero, a loro volta, semplicemente degli insulti e dopo un pomeriggio di dibattito collettivo, maturò l’idea di rispondere con una lettera aperta. I piani di risposta potevano essere tanti, ma da scuola laica come eravamo, decidemmo di concentrarci sulla prima accusa, quella che definiva l’obiezione di coscienza un insulto alla patria. Utilizzando i nostri libri di storia, passammo al vaglio le guerre fatte dall’Italia dopo il 1860, per capire se erano in linea con l’articolo 11 della Costituzione in base al quale «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli». Purtroppo risultarono tutte aggressive, per cui chiedemmo, per ognuna di esse, se la patria si serviva obbedendo o disobbedendo.
Ravvisandovi incitamento alla diserzione e vilipendio alle forze armate, un gruppo di excombattenti denunciò la lettera per apologia di reato. Nel giro di pochi mesi venne fissata la prima udienza, ma poiché il Priore era gravemente malato invece di presentarsi, scrisse la sua autodifesa sotto forma di Lettera ai giudici. Molti interpretarono la sua lettera come una richiesta di legalizzazione dell’obiezione di coscienza, in realtà è una lezione di educazione civica e morale. L’obiettivo di Lorenzo non è difendere un diritto individuale, ma promuovere un progresso collettivo. Non gli interessa tanto il diritto soggettivo di chi ha sviluppato certe sensibilità, quanto il miglioramento di tutta la società, per permettere a tutti di vivere in pace, giustizia e dignità. Lorenzo sa che il volto della società dipende dalle leggi, per cui cerca strade per fare cambiare quelle sbagliate. Nel ventaglio delle iniziative possibili include la disobbedienza perché sa che la non collaborazione ha una grande forza di persuasione: «In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
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Francesco Gesualdi
Avvenire, 14 aprile 2017