Niente di nuovo sul fronte occidentale: nel commentare i dati Ocse sulla scuola potremmo tranquillamente parafrasare il titolo del romanzo di Erich Maria Remarque. Tuttavia, ci sono almeno tre aspetti che meritano di essere sottolineati. Il dato più clamoroso, in palese contrasto con le politiche europee, è probabilmente quello che riguarda il numero di laureati, che in Italia sono meno della metà rispetto alla media dei Paesi Ocse, in un contesto in cui il capitale umano costituisce la 'risorsa pregiata' dei sistemi economici.
Potrebbe parere paradossale, in questo quadro, il dibattito sul numero chiuso richiesto dalla Statale di Milano, e bocciato dal Tar del Lazio, se non si tiene conto del tipo di laureati 'prodotti', che non sono solo 'pochi', ma sono 'sbagliati', o meglio non coprono quei settori (definiti Stem, cioè scienze, tecnologia, economia e matematica) che sono di supporto allo sviluppo economico. Per l’Italia, anche i beni culturali e architettonici sono, o dovrebbero essere, un’importante settore di impiego, per cui è da ritenere opportuna l’aggiunta della A di arti, che dà l’acronimo Steam, sigla propiziatoria, visto che in inglese significa vapore, ma anche energia, e to steam ahead vuol dire 'andare a gonfie vele'... Ciò posto, garantire a tutti l’accesso alle facoltà impropriamente definite umanistiche – tra cui andrebbe compresa anche giurisprudenza, probabilmente la più inflazionata – rispetta sì il diritto allo studio, ma accresce il divario fra competenze offerte dall’università e domandate dal mercato del lavoro, diminuendo le probabilità di occupazione. E infatti secondo il Rapporto, nel 2016 solo il 64% dei giovani laureati (minori di 34 anni) aveva un lavoro, non sempre coerente con il percorso di studi. È così caduta la fiducia delle famiglie sull’investimento in istruzione, facendo calare le iscrizioni all’università, che solo nello scorso anno hanno registrato una modesta ripresa.
Il punto importante non è però il numero delle matricole, ma quello dei laureati, che nei corsi ad accesso programmati sono quasi tutti, mentre nei corsi liberi il tasso di abbandono è più del doppio dei valori europei. I laureati (inclusi i molti fuori corso) del ciclo triennale nel 2014/2015 sono stati intorno al 58% degli iscritti negli otto anni precedenti, il che significa che quattro matricole su dieci non riescono a conseguire nemmeno la laurea triennale. Il problema della dispersione, affrontato in un’altra sezione del rapporto, resta fra i più gravi della scuola italiana, che ha visto diminuire la percentuale di abbandoni precoci dall’impressionante 20,8% del 2006 all’attuale 14,7%, ancora troppo alto, superiore alla media europea e ben lontano dal 10% posto come traguardo dal processo di Bologna per il 2010.
Un secondo aspetto è che dai dati riguardanti sia la scuola che l’università, continua a emergere l’immagine di un’Italia a due velocità: i valori medi sono poco significativi perché le differenze fra zone geografiche (e segnatamente fra il Nord e il Sud e le Isole) vede zone che superano i valori medi, e altre che hanno valori bassissimi di riuscita, come emergeva anche dai test 'Pisa'. Questo testimonia, l’inefficacia del modello organizzativo centralizzato, che non riesce né ad abbassare i divari, né a valorizzare le eccellenze, e il livello insoddisfacente di attuazione dell’autonomia.
Quanto alla spesa, terza ma non meno importante questione, per valutarne l’efficacia è utile una rilettura per ordine di scuola: nel 2014 il costo pro capite di uno studente della scuola primaria era di 8.442 euro, verso una media di 8.733; per la secondaria inferiore 9.033 contro 10.235; per la superiore 8.859 contro 10.182 e infine per l’istruzione universitaria 11.510 contro 16.143. La differenza parte da 290 euro, per salire a 1.202, a 1.323 e ben a 4.533.
L’ Italia, insomma, spende come gli altri Paesi per l’istruzione come diritto di base (positivo il fatto che oltre il 90% dei bambini da 3 a 5 anni frequentano la scuola dell’infanzia, mentre la media Ocse è inferiore a 80%), molto meno come elemento di professionalizzazione, e pochissimo per l’istruzione superiore che quindi rappresenta l’anello debole del sistema da tutti i punti di vista. Tranne, potremmo aggiungere, per la qualità: rimandando a un altro momento le considerazioni sul valore delle varie classifiche (oltre che per il marketing…), ogni giorno vediamo come laureati e ricercatori italiani siano presenti con successo in università, imprese e istituti di ricerca di moltissimi Paesi. Interessante notare, infine, che il rapporto Ocse introduce per la prima volta un capitolo sullo sviluppo sostenibile e sul ruolo dell’educazione da qui al 2030, indicando obiettivi precisi.
La posizione dell’Italia rispetto ai singoli indicatori (ottima ad esempio nella parità di genere, bassissima per stipendi e aggiornamento in servizio degli insegnanti…) si presta a diverse riflessioni sul ruolo e sul valore oggi assegnato alle istituzioni educative e all’educazione stessa, che non sempre emergono dalla semplice considerazione dei dati quantitativi, a cui un primo sguardo rischia di assegnare un’importanza esclusiva. Non si tratta, insomma, semplicemente di spendere di più per l’istruzione, prima grande incompiuta d’Italia. Ma di farlo meglio, mirando gli investimenti, orientando i ragazzi verso i settori in maggiore sviluppo e soprattutto scongiurandone la dispersione.
Luisa Ribolzi
Avvenire, 13 settembre 2017