Chi insegna si trova quotidianamente a constatare come quella cultura letteraria che fino a qualche decennio fa era un patrimonio condiviso oggi sembri non interessare più ai giovani (almeno alla stragrande maggioranza di loro) e non essere in grado né di stimolarli né di aiutarli a comprendere la realtà che li circonda. Si è verificata, negli ultimi venti–trent’anni, una discontinuità, una frattura epocale in termini di paradigmi culturali. Chi, come chi scrive, insegna Letteratura da diversi anni vede come essa abbia ormai perso quella funzione di fondamentale veicolo dell’esperienza umana e delle vicende storico–sociali che essa ha per secoli rivestito.
Come deve modellarsi, oggi, in questo mutato contesto, l’insegnamento della letteratura? È paradossale che in un’epoca come quella attuale, in cui il ruolo di questa disciplina appare sempre più residuale, continui a sopravvivere, nel mondo della scuola, una certa idea – aristocratica o, se si vuole, semplicemente selettiva – per cui il campo letterario vada perlustrato alla ricerca di figure retoriche, di strutture organizzative, di fasi, sequenze, fabulae e intrecci. Gli schemi, le mappe, le esercitazioni che fioriscono sulle pagine dei manuali, a bene vedere, sono i prodotti (certamente i più semplicistici e banalizzanti) di un’idea anonima e meccanica dell’insegnamento: un’idea per la quale la nozione prevale sulla fascinazione.
Confrontandomi con amici e colleghi, percepisco un disagio che assomiglia a una sindrome di accerchiamento. Certo, li capisco: un verso di Petrarca o di Montale, una pagina di Manzoni o di Calvino che cosa può comunicare ai ragazzi del 2020? A distanza di un secolo, dobbiamo forse dare ragione a Italo Svevo e fare fino in fondo come lui, che mentre a parole celebrava la rinuncia a un “vizio” simile a una malattia, segretamente leggeva, rileggeva e poi scriveva, per capire meglio se stesso e gli altri. Ecco, proprio quando i giovani appaiono privi di ogni sistema di protezione, esposti a un presente incerto e precario, la letteratura (e il suo insegnamento) può recuperare un senso profondo, parlando e stimolando la capacità di orientarsi nel labirinto e di far fronte alle sfide dell’esistenza.
Ma affinché ciò possa accadere, è necessario trovare la strada giusta. Noi insegnanti non dovremmo mai dimenticare che la letteratura parla di tutto e a tutti: a maggior ragione, quando le sue note si diffondono tra le pareti di un’aula. E diventano così non solo la fonte di una riflessione individuale, ma di una discussione, condivisa e socializzata. Ecco il vero fulcro dell’umanesimo: il dialogo come fonte di piacere e di crescita. So bene che è difficile uscire dalla gabbia delle periodizzazioni forzate, degli indirizzi e delle correnti preconfezionate, delle epoche e delle tendenze concepite per comodità didattica alla stregua di comportamenti stagni. Parlo anch’io in classe del Foscolo neoclassico e di quello romantico, del D’Annunzio esteta e del D’Annunzio superuomo, di quanto sia ermetico Ungaretti e di quanto non lo sia.
Ammetto pure che, mio malgrado, finisco per cadere nel luogo comune del “pessimismo” di Leopardi: e anche se, canto dopo canto, operetta morale dopo operetta morale, gli studenti capiscono l’inadeguatezza o almeno l’incompletezza di quella definizione stereotipata, poi fanno fatica ad emanciparsene totalmente. Ma alla fine della tappa leopardiana vedo che in loro si è formata una figura diversa del poeta dell’Infinito: un loro intimo che parla a cuore aperto, che cerca disperatamente la bellezza, che insegue l’amore e la felicità tanto più quando gli vengono negati, l’uno e l’altra, e si fa la domanda che invano pone alla Luna: «E io che sono?». Ed è, in fondo, la domanda che ogni ragazzo pone a se stesso.
Roberto Carnero
Avvenire, 20 maggio 2020