Suona in questi giorni la campanella del primo giorno di scuola. Nel grande rito collettivo che segna per milioni di famiglie il vero Capodanno, attira l’attenzione il dato comunicato qualche settimana fa dal ministero dell’Istruzione e del merito: erano 914.860 gli alunni con cittadinanza non italiana nel 2022-2023, con un incremento di 42.500 unità (+4,9%) rispetto all’anno precedente. La loro incidenza è salita all’11,2%.
Mentre si torna a discutere di una riforma che agevoli l’accesso alla cittadinanza italiana, magari proprio grazie alla scuola, vale la pena di accendere i riflettori su questa realtà. Eraldo Affinati l’ha fatto con maestria su queste colonne nei giorni scorsi. Tre sono i problemi che il rapporto ministeriale pone in rilievo, confrontando gli alunni con cittadinanza italiana con quelli che non la posseggono. Il primo è il maggiore rischio di ritardo scolastico: 26,4% contro 7,9%, che arriva a 48,0% contro 16,0% nella scuola secondaria superiore. Il secondo è il fenomeno dell’abbandono: 25,2% contro 18,4% non arriva al diploma. Fenomeno peraltro soprattutto maschile, a dispetto degli stereotipi sulle famiglie immigrate che segregherebbero le figlie adolescenti in casa. Anche tra gli alunni non (riconosciuti come) italiani, a scuola le ragazze vanno meglio dei maschi. Il terzo punto dolente, forse meno appariscente e dato persino per scontato, è la canalizzazione nei rami meno nobili dell’istruzione superiore, ossia negli istituti professionali e tecnici. Gli alunni senza cittadinanza sono soltanto il 5,5% della popolazione liceale, e scendono all’1,8% nei licei classici. Tutti e tre questi fattori di disparità dipendono in gran parte da una matrice comune: l’arrivo dall’estero a un certo momento del percorso educativo. Più tardi arrivano, più faticano a inserirsi. Non di rado partono con l’handicap, essendo inseriti in una classe inferiore all’età anagrafica, o essendo respinti al primo anno di scuola a causa delle difficoltà sul piano linguistico. Da questo punto di vista, il rapporto offre una buona notizia: il 65,4% degli alunni privi della cittadinanza italiana sono nati in Italia, e presumibilmente hanno compiuto in Italia tutto il loro percorso educativo.
Per la prima volta quest’anno i nati in Italia prevalgono anche nelle scuole superiori, e sono in larga maggioranza negli altri ordini di scuola: 81% nella scuola dell’infanzia, 69,1% nella scuola primaria, 63,7% nella secondaria di primo grado. Chi ha sempre vissuto e studiato in Italia, sebbene discriminato sul piano della cittadinanza, dispone di maggiori strumenti per condividere il percorso di apprendimento dei compagni. E infatti ottiene risultati migliori di chi è partito dall’estero. Questa constatazione stimola una riflessione più impegnativa. Parlare di cittadini e non cittadini, da un punto di vista pedagogico, è fuorviante. Ciò che dovrebbe contare, per predisporre adeguate misure di accompagnamento, è il possesso della lingua italiana, non il passaporto. Abbiamo alunni non italiani che padroneggiano la nostra lingua al pari dei compagni italiani per discendenza, e magari anche meglio; e ci sarà probabilmente qualche alunno che, pur dotato della cittadinanza, ha ancora bisogno di sostegno linguistico. La lingua dunque è la chiave del futuro: del successo scolastico, della socialità e dell’integrazione con i compagni. Ben vengano progetti educativi capaci di sostenere tutti gli alunni che fanno fatica, quale che sia la loro cittadinanza, e ben vengano iniziative di accompagnamento extrascolastico come le scuole Penny Wirton di Affinati, e come i tanti doposcuola parrocchiali e associativi sparsi lungo la penisola. Dovremmo lanciare quello che potremmo chiamare “progetto don Milani”: fornire a tutti gli alunni l’inestimabile risorsa della padronanza linguistica e della capacità di comunicare.
Maurizio Ambrosini
Avvenire, 11 settembre 2024