UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

«Io, prof per scelta, in carcere. Lezioni d’italiano ai detenuti»

Giovanna Canzi per 4 anni ha insegnato nella casa circondariale di Monza. Ora la sua esperienza è diventata un libro
20 Dicembre 2024

Il segretario scolastico chiama la docente designata per la supplenza di italiano nell’istituto del carcere di Monza con la voce imbarazzata di chi prova quasi a scusarsi di un’assegnazione così complessa. Invece, dall’altra parte del telefono, Giovanni Canzi risponde sì senza fare una piega. E anzi – anche se il segretario non lo sa – la sua interlocutrice sta facendo i salti di gioia.

«Prima di quel momento non avevo mai insegnato – racconta la professoressa Canzi –. Ho sempre lavorato nel mondo del giornalismo e dell’editoria ma a un certo punto della mia vita mi sono trovata nella condizione di dover cambiare strada professionale e così ho seguito il consiglio di alcuni amici e ho pensato di iscrivermi nelle liste per le supplenze. Nei moduli della richiesta dovevo inserire un istituto preferito e io ho scritto il nome di quello legato al Cpia, il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, sperando di finire nella sua sede distaccata: il carcere di Monza». È il 2016. Non passa molto che Canzi si ritrova al suo primo giorno, davanti al pesante cancello del penitenziario. Per le prime lezioni è stata assegnata alla settima sezione, riservata ai sex offender, quelli che hanno abusato di una donna o si sono macchiati dell’odioso reato di pedofilia. È a loro che Canzi insegnerà italiano. «La cosa che mi ha colpito di più – ricorda la docente – è il percorso tortuoso per arrivare alla classe. I cancelli che si aprono e subito si chiudono, gli ambienti angusti, gli agenti affaticati… La pesantezza del luogo si sente tutta, così come l’organizzazione militare e i suoi rigidi protocolli. A poco a poco, bisogna imparare la geografia e adeguarsi alle regole: è la parte più difficile, insegnare non è affatto complicato».

«Lo so che sembra strano – continua Canzi, anticipando la nostra perplessità – ma ricordiamo che frequentare le lezioni in carcere è una scelta volontaria e perciò chi entra in classe di solito è motivato e vive quelle ore di insegnamento come una boccata d’aria». La scuola in carcere è un diritto previsto dalla legge 354 del 1975 che, all’articolo 15, identifica l’istruzione come un elemento fondamentale del tratta-mento rieducativo dei detenuti. Per gli stranieri che non parlano italiano consiste in corsi che garantiscono l’alfabetizzazione; per gli altri il percorso prevede classi delle medie e un corso accelerato corrispondente ai primi due anni delle scuole superiori per permettere ai reclusi l’accesso a un triennio di una scuola professionale, che spesso ha sede proprio nelle carceri (a Monza, per esempio, c’è una sezione di alberghiero). Secondo gli ultimi dati del ministero, riferiti all’anno scolastico 2022-2023, in Italia risultavano iscritti a corsi scolastici nei penitenziari 19.372 detenuti, pari al 31% della popolazione reclusa. È proprio in questo contesto che per quattro anni, dal 2016 al 2020, Canzi ha insegnato italiano alle medie svolgendo anche il ruolo di coordinamento tra l’istituto scolastico e il penitenziario.

Per raccontare questa esperienza, Canzi ha appena scritto un libro dal titolo “Lontano dalla vita degli altri” pubblicato per marinonibooks (illustrazioni di Gabriella Giandelli): «Non ero di ruolo e, dopo quattro anni, ho perso il posto. Anche se oggi insegno ancora nel Cpia, ma con gli stranieri e fuori dal carcere, non volevo dimenticare quell’esperienza e così ho scritto racconti sui miei ex studenti». Spalle grosse, braccia muscolose, qualche tatuaggio e tratti somatici diversi: troviamo Addou, con una fede incrollabile nel Corano e l’attitudine filosofica a mettere in dubbio ogni concetto; Paolo e Romeo affezionati frequentatori della biblioteca del carcere dal piglio dei critici letterari, l’albanese Oresti arrivato in Italia su una barca della speranza e Giacomo, cordialissimo pensionato ma con un femminicidio alle spalle.

«La scuola del carcere è come una piccola città, ci sono alunni con retroterra e formazioni diverse, oltre che naturalmente un ventaglio di reati. In particolare – spiega Canzi – a Monza, che è una casa circondariale e ospita solo persone in attesa di giudizio, c’è un turn over importante e io ho incontrato di tutto: si va da un ragazzo laureato, in cella per un reato politico, al medico accusato di pratiche illegali fino a persone extracomunitarie che avevano da poco appreso l’italiano. Leggere Edgar Allan Poe o Hemingway insieme a persone così diverse, molte delle quali non si sono mai avvicinate alla letteratura, è un’emozione impagabile che ti costringe a sperimentare una didattica innovativa. Con uno di loro, per esempio, che non parlava mai, ho usato le tecniche del mimo per interpretare i personaggi della letteratura. Quando abbiamo studiato l’Inferno dantesco, invece, ho fatto un quiz agli studenti, chiedendo loro di dirmi quali fossero le pene più gravi. Quasi tutti – proprio come Dante, ma senza saperlo – hanno definito come massimo peccato il tradimento. Insomma, quando insegni con persone così emarginate della società, non sei un docente tradizionale e il lavoro in classe va ben oltre la grammatica».

Ilaria Beretta

Avvenire, 20 dicembre 2024