È primavera, e periodo pasquale. La natura torna a rinascere dopo il periodo secco e grigio dell’inverno, mentre a scuola si racconta la storia appassionante e dolorosa di Gesù che viene condannato a morte e risorge il terzo giorno, in modo prodigioso. Mentre i bambini a scuola osservano ciò che accade intorno a loro e ascoltano le narrazioni delle insegnanti, si lasciano interrogare nel profondo attorno al tema del vivere e del morire. Una giovane maestra prende spunto dalla piccola pianta poggiata sul davanzale della finestra dell’aula: «Un fiorellino è nato e un altro è morto: succede solo alle piante?».
Subito i bambini, anche i piccoli di tre anni, rispondono con consapevolezza: «No, anche alle persone, che vanno in cielo con Gesù» (Sara, 3 anni). Da un dialogo che racconta evidenze però i bambini anche piccoli subito sentono il dramma che lega la morte alle persone care: «Mia nonna Ada non va in cielo e neanche il nonno Gianni perché io gli voglio tanto bene e vivranno per sempre» (Valeria, 3 anni); «neanche la mia mamma e il mio papà, vanno solo al lavoro» (Bruno, 3 anni). Morire è una cesura forte, definitiva, spaventosa: «Ii miei cari vivranno per sempre, non ci provi nessuno a portarmeli via», sembra dire tra le righe quella bambina. «Quando si muore si va in cielo… ma i miei vanno solo al lavoro, e non ci provino ad andare altrove», sembra dire il compagno.
La drammaticità del distacco è sentita in modo chiaro. E anche laddove una bimba sembra affascinata dall’idea che grazie alla morte si potrà andare in cielo e vedere gli angioletti, subito il compagno ribatte che lui preferisce vedere i suoi cari qui sulla terra. Alla scuola dell’infanzia i bambini parlano tra loro di questioni importanti. A volte se ne escono con affermazioni dure, drammatiche: «Tuo papà non c’è più. È perché sei stato cattivo?» (Fabio, 4 anni). La morte, talvolta, è vista come punizione, legata al troppo umano senso di colpa. Non diverso dal sospetto antico che Gesù deve combattere quando risponde alla provocazione dei giudei di fronte ai genitori del cieco nato: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9,1).
È drammatico morire; drammatica la domanda sul perché si muore, sul perché la vita ci metta di fronte a un dolore così grande e insopportabile. Ancor più drammatica la domanda quando a soffrire è un bambino. Eppure è la domanda che ci muove alla ricerca del senso, e la scuola non può ignorarla. Una buona scuola dell’infanzia tiene alto il proprio profilo educativo lasciando spazio alle grandi questioni della vita, anche a quelle scomode e difficili. Una buona scuola non può perdere di vista la dimensione spirituale che caratterizza le persone – anche i piccoli – ovvero la loro sete di senso, il loro bisogno di cercare il perché delle cose, la loro necessità di continuare a interrogarsi. Ma è straordinario vedere come i bambini a scuola sappiano anche fare unità tra questioni apparentemente lontane; e allora il problema della morte emerge anche mentre si stanno svolgendo attività di tipo logico-matematico.
La maestra Sofia ha assistito a un dialogo bellissimo con i bambini di cinque anni, mentre stava svolgendo una proposta didattica attorno ai concetti matematici di zero e infinito. Gianni (5 anni), deciso, ha affermato: «Infinito è l’amore della mamma». Riccardo (5 anni) ha risposto: «Quando una persona muore l’amore finisce». Francesco (5 anni) ha smentito tale idea raccontando che: «Mia zia va tutti i giorni al cimitero a trovare sua figlia». L’amore continua anche dopo la morte, l’amore è infinito afferma Francesco con una logica disarmante. Cosa c’è di meno 'esistenziale' della matematica? Eppure i bambini sanno riportare tali questioni al problema del senso della vita. Alla scuola dell’infanzia le discipline non sono separate: i saperi riacquistano senso; ciò che imparo mi costruisce come uomo; quello che sono, la globalità della mia esperienza, entra completamente nell’esperienza scolastica.
Sarebbe più facile per i docenti proteggersi dietro gli steccati dei saperi formalizzati, dell’ora di lingua, di logica, di educazione psico-motoria, di religione. Ma i bambini non ce lo permettono, e ci richiamano a ciò che conta sapere: la strada per diventare uomini. È questo il bello di una buona scuola dell’infanzia: valorizzare e stimolare il pensare in grande dei bambini. È straordinario e faticoso insieme stare all’altezza dei bambini.
È esperienza quotidiana delle insegnanti dell’infanzia ciò che scriveva nel 1924 il grande maestro, Janusz Korczak: «Dite: è faticoso frequentare i bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca. È piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli».
Marco Ubbiali
componente della Commissione tecnica per il Settore pedagogico Fism nazionale
Avvenire, 10 aprile 2018