È come se tutta Genova in 10 anni fosse emigrata all’estero per cercare lavoro. E, se non ci fosse stato l’anno del Covid, la fuga sarebbe stata più evidente. Mentre l’attenzione della politica nazionale si concentra sull’arrivo via mare di migliaia di migranti, perlopiù giovani, che appena finita la quarantena cercano di ripartire verso il nord Europa, in dieci anni sono 'spariti' dal Paese 580mila italiani. L’equivalente della popolazione del capoluogo ligure, sesta città italiana, sostiene uno studio della Fondazione Moressa sugli ultimi 10 anni dato in esclusiva ad Avvenire.
I numeri chiariscono che il saldo migratorio estero degli stranieri in Italia è ancora positivo, nonostante i livelli nettamente inferiori rispetto al periodo 2007-2010. Se 15 anni fa, infatti, entravano mediamente in Italia oltre 400mila stranieri (al netto delle partenze verso l’estero), da circa sette anni questo valore si è dimezzato.
La situazione degli italiani è invece definita dallo studio 'preoccupante'. Nel 2020, nonostante la chiusura delle frontiere, il saldo tra arrivi e partenze è stato negativo di meno 65mila unità. Negli ultimi otto anni il saldo si è attestato sempre con perdite di almeno 50mila unità. Considerando il periodo 2011-2020, il saldo degli italiani è di meno 580mila unità. Gli stranieri, invece, contribuiscono a mantenere il saldo attivo, con un incremento di oltre 2 milioni nell’ultimo decennio.
Lo studio della 'Moressa' chiarisce, però, andando controcorrente, che non si tratta di una fuga di cervelli. «Gli emigranti italiani non sono principalmente laureati – spiega il ricercatore Enrico Di Pasquale, autore della ricerca elaborata su dati Istat –. Tra i connazionali che nel 2020 hanno lasciato il Paese, ad esempio, solo un quarto è infatti laureato». Quindi su tutti gli emigranti italiani 3 su 4 hanno un titolo di studio medio-basso e partono in cerca del lavoro per arrivare alla fine del mese. Certo, negli ultimi anni il numero dei laureati è progressivamente cresciuto, pur in maniera altalenante, passando dal 22,3% del 2012 al 25,8% attuale (+3,5 punti). Nel 2020 sono partiti dall’Italia circa 31mila laureati italiani su 120 mila emigranti, di cui 7 su 10 nella fascia 25-39 anni. Se poi il numero di emigrati italiani è quadruplicato dal 2011 al 2020, ancora più forte l’aumento degli emigrati laureati 25-39 anni, passati da 4.720 a 22.703 (cinque volte). Tendenza che andrà comunque monitorata. Da dove partono i laureati?
«Ben nove regioni – prosegue Di Pasquale – hanno visto partire più di 1.000 laureati nel 2020. In particolare la Lombardia ne ha visti partire oltre 6mila e il Veneto oltre 3mila. Nell’ultimo anno, segnato dalla pandemia, cinque regioni hanno invece registrato un calo nelle partenze verso l’estero dei propri laureati. Sono Lazio (-18%), Campania, Puglia, Calabria e Sicilia». Nessuna novità, Covid e Brexit o no, sulla destinazione preferita. Tra i 120mila espatriati italiani nel 2020, quasi uno su tre ha infatti scelto il Regno Unito, confermando la tendenza della nuova emigrazione italiana. Oltre il 60% degli emigrati, sottolinea la ricerca, si è diretto verso soli quattro Paesi europei: oltre al Regno Unito, Germania, Francia e Svizzera. Sono, però, méte scelte soprattutto dall’emigrazione meno qualificata. I 'cervelli' preferiscono invece i Paesi Bassi (45,1%) e il Belgio (39,1%), «caratterizzati probabilmente – aggiunge Di Pasquale – da posti di lavoro in grandi imprese, nelle università e nelle istituzioni europee». Insomma le migliori opportunità per chi ha un titolo di studio alto sono ancora nella Ue.
«Se si tratta di mobilità – commenta il ricercatore della 'Moressa' – dentro l’Unione non è un fenomeno in sé negativo. Diverso è se si tratta di persone che non trovano sbocchi professionali nel nostro Paese e sono obbligati a restare all’estero». In definitiva non abbiamo ancora perso una generazione di giovani cervelli. Sono quasi 9 laureati italiani su mille tra i 25 e i 39 anni a partire. Su 2,6 milioni di laureati, ne sono emigrati quasi 23mila. Resta da capire, per loro e per chi non ha una laurea, ma non ha potuto scegliere di restare a casa propria, se l’Italia che riparte darà loro le opportunità per uscire dall’inverno della demografia e del lavoro.
Paolo Lambruschi
Avvenire, 9 febbraio 2022