Capovolgere il famoso adagio. E tenere ben presente, quando si tratta di giovani, che «c’è la vita solo finché c’è la speranza». È il compito dell’educatore, per Daniele Bruzzone, professore di Pedagogia generale e sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che commenta la parola “speranza” messa al centro della Gmg 2024 dal Papa. «Se c’è un traguardo bello, se la vita non va verso il nulla, se niente di quanto sogno, progetto e realizzo andrà perduto - scrive Francesco - allora vale la pena di camminare e di sudare, di sopportare gli ostacoli e affrontare la stanchezza».
Come suonano queste parole dopo gli episodi di Paderno e Traversetolo?
Non c’è solo la cronaca a dirci che tutti gli indicatori del disagio giovanile sono peggiorati. Gli psicoterapeuti ci avvertono da tempo dei rischi di una generazione di giovani che sono stati privati del futuro. Aggressività e autolesionismo sono due modalità classiche di reazione, perché “nulla vale la pena”. Noi adulti siamo i primi ad avere una retorica del futuro che non incentiva l’ottimismo. I ragazzi si ritirano nel presente, smettono di investire, quando non si arriva all’eccesso delle nevrosi. Tuttavia, se i dati sono preoccupanti, non ci devono indurre a patologizzare eccessivamente i giovani, per esempio con il ricorso a sostanze psicotrope a scopo lenitivo.
Gli adulti si rassicurano pensando che i giovani vadano “curati” o “protetti”?
La preoccupazione degli adulti è una parte del problema. L’iperprotezione vuole risparmiare fatiche, frustrazione, dolore. Dall’altra parte c’è un’eccessiva aspettativa di riuscita, di successo: non puoi rimanere indietro, non puoi essere meno degli altri, se non eccelli non vali nulla. Questo, dentro e fuori da scuola, produce ansia. Se una volta c’erano sofferenza o noia, oggi è questo il nuovo male. Abbiamo messo i loro bisogni al centro, ma la speranza non ha a che fare con la risposta a bisogni, ha a che fare con i desideri. E in un mondo in cui siamo tutti consumatori, si cerca di colonizzare anche il desiderio dei ragazzi. Li dovremmo invece liberare da schemi e stereotipi. In loro c’è un grande desiderio di autenticità, di essere sé stessi, di non omologarsi. Il rischio è che il desiderio resti imprigionato nelle aspettative degli altri, in primis dei genitori. Il paradosso che Matteo Lancini descrive in Sii te stesso a modo mio.
Come permettere ai ragazzi di guardarsi con ottimismo?
Offrendo loro “luoghi” educativi attraverso cui sia loro possibile prendere la parola, raccontarsi, esprimersi, essere ascoltati. Dove possano costruire insieme qualcosa, assumendosi responsabilità e sentendo di avere un peso. Non è un caso che i movimenti ecologisti abbiano suscitato l’adesione di tanti ragazzi. Si parla di più dei casi di cronaca nera, ma c’è una idealità buona che attende di essere riconosciuta e mobilitata. I luoghi sono educativi se “ti mettono al mondo”, non se ti lasciano soli davanti allo schermo, sul divano. Spesso ciò che nuoce ai ragazzi è esattamente tutto ciò che si frappone fra loro e gli altri. Luoghi educativi sono quelli dove prendersi spazi di autonomia - non possiamo accompagnarli ovunque -. Dove progettare anche piccole azioni ma che abbiano magari un impatto sul quartiere, sulla città. Dove incontrare mentori, e non influencer, che mostrino che puoi fare della tua vita qualcosa di importante anche se non sei il primo della classe, o anche se hai un fisico “anomalo”. Storie che vadano in controtendenza. L’obiettivo, la felicità, non è solo quello che altri ci vogliono fanno vedere.
Annalisa Guglielmino
Avvenire, 25 settembre 2024