Diritti & denari. L’inclusione scolastica dei ragazzini disabili è sacrosanta, mica assoluta: dipende dai soldi nelle casse del Comune. Parola, anzi sentenza (la numero 1798 del 2024), del Consiglio di Stato, che l’ha messa nero su bianco, confermando la decisione del Tar e quindi ri-bocciando il ricorso della famiglia di un ragazzo contro la riduzione delle ore d’assistenza scolastica per l’anno passato. Perché «destituito di fondamento fattuale».
Mettiamola facile. Ogni alunno con disabilità ha un “Piano educativo personalizzato” (Pei), che viene messo a punto entro il 30 novembre di ogni anno dal dirigente scolastico insieme al Consiglio di classe, all’Unità multidisciplinare, agli operatori psico-socio-sanitari, ai genitori dell'alunno e alle figure professionali specifiche interne ed esterne alla scuola che interagiscono con la classe. Un Piano che serve a rendere ottimale l’apprendimento e lo sviluppo e, attraverso una «didattica inclusiva», formare «una comunità accogliente - stando al ministero dell’Istruzione - nella quale tutti, a prescindere dalle condizioni personali, trovano opportunità per realizzare esperienze di crescita». Piano, infine, che prevede anche quante ore il ragazzo necessita dell’«Assistente specialistico all’autonomia e alla comunicazione».
Sempre in soldoni, poniamo che la scuola, attraverso il Pei, chieda dieci ore a settimana e il Comune faccia sapere che i denari ci sono solo per tre, amen, si fanno le tre e fine della storia, visto che il Pei vale come proposta, ma non vincola nessuno, avvisa il Consiglio di Stato. Tant’è che cita la Convenzione Onu approvata il 12 dicembre 2006 (e ratificata dal nostro Paese nel 2009), che «non conia un diritto incondizionato all’inclusione scolastica», ma «tiene a battesimo la nozione di accomodamento ragionevole, intendendosi le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo».
Morale? Il diritto all’inclusione scolastico sarà pure sacro e santo, ma appunto senza esagerare con le spese. E il Consiglio di Stato come mette un’ultima pezza? La riduzione delle ore di assistenza, di cui si erano lamentati i genitori del ragazzo, non gli ha impedito di raggiungere gli obiettivi educativi. E così, a conti fatti, il Comune ha pure risparmiato.
Solo che le associazioni non ci stanno affatto: «Il diritto allo studio degli alunni con disabilità prevale sui vincoli di bilancio: lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale nella sentenza n. 265 del 2016», ricorda l’Associazione italiana persone down (Aipd). E «di fronte a una brutta sentenza del Consiglio di Stato – dice il presidente, Gianfranco Salbini –, sento la necessità di rilanciare e rivendicare con forza l’intangibilità di questo diritto, messo in discussione dall’ennesimo tentativo di sottometterlo alle esigenze di bilancio». Con questa sentenza che «rischia infatti di portare a una compressione del diritto all’inclusione, specialmente in un contesto in cui le risorse sono spesso già scarse».
Stessa sostanza nelle parole della federazione per il superamento dell’handicap (Fish), che sottolinea il «duro colpo per i diritti degli studenti con disabilità», con una decisione che «rischia di minare i diritti costituzionalmente garantiti e rappresenta un grave passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali», a cominciare dalla negazione «del diritto all’assistenza per l’autonomia e la comunicazione», che «nella sentenza è declassato ad un semplice interesse legittimo, subordinato alle disponibilità di bilancio degli enti locali ». Che «contrasta apertamente con la giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale».
Durissima anche la posizione del “Coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down (Coordown), secondo cui questo è «un precedente preoccupante», che potrebbe «legittimare gli enti locali a fare in futuro scelte al ribasso sulle spalle delle alunne e degli alunni con disabilità nell’assegnazione delle ore». Quanto poi, alle Nazioni Unite, «è quanto meno fuorviante il richiamo al principio dell’accomodamento ragionevole, previsto dalla Convenzione Onu» - annota il Coordown -, perché «dovrebbe essere uno strumento a tutela delle persone con disabilità, mentre in tale contesto viene utilizzato espressamente per legittimare interventi contro le stesse!».
Pino Ciociola
Avvenire, 26 agosto 2024