Quando si è insegnanti, si vede spesso la competizione come un valore positivo. In sala professori si sente regolarmente questa lamentela: «Quando non ci sono voti in vista, gli allievi non studiano più». È un fatto: gli allievi prendono molto sul serio l’attribuzione di voti ai loro lavori e al loro rendimento scolastico, e tendono a identificare le loro capacità con i voti ricevuti in questa o quella materia. Inoltre si confrontano fra loro attraverso il voto, traendone ora un motivo di orgoglio, ora un motivo di vergogna o un certo disprezzo di sé stessi. E’ vero anche che la maggior parte studia “per il voto”, cioè in uno spirito di competizione con gli altri, e a certuni basta un voto basso per demotivarsi e perdere ogni speranza di cavarsela in un modo o nell’altro in quella competizione.
Si può certo deplorare questa interiorizzazione dello spirito competitivo nelle aule scolastiche, ma non va ignorato che per parte loro gli allievi ne sono ben poco responsabili. Si tratta di qualcosa che gli è stato insegnato insieme alla matematica e al francese. In effetti, è la scuola stessa, quando attribuisce un ruolo centrale alla valutazione, che va considerata responsabile di tale spirito competitivo, come anche dei suoi effetti deleteri: narcisismo o disprezzo di sé, desiderio di farcela in barba agli altri, atteggiamento strumentale verso lo studio, perdita di un rapporto oggettivo con il sapere, perdita del senso della comunità e dell’aiuto reciproco...
Tuttavia, qualche anno fa le autorità competenti hanno fatto arrivare agli insegnanti un certo messaggio: «Bisogna smettere di dare voti!». Il voto – si sentiva dire sempre più spesso dagli ispettori e dagli altri formatori degli insegnanti – stigmatizza e ingenera il disgusto per lo studio. Ma soprattutto, è completamente privo di efficacia nel far riuscire l’allievo. Di fatto, nel 2008, quando ho deciso di scrivere il mio primo libro sulla valutazione in ambito scolastico, A l’école des compétences, la “valutazione per competenze” era già in voga da qualche tempo nell’ambiente della gestione dell’istruzione. Il discorso dominante a quell’epoca era il seguente: se vogliamo valutare l’efficacia reale dell’insegnamento (nonché operare confronti a livello internazionale), occorre mirare le competenze acquisite grazie all’insegnamento stesso, in altre parole il “saper fare” realmente acquisito dagli allievi, e non i saperi normati da questo o quel sistema scolastico regionale. Ed effettivamente, poco importa il voto buono o cattivo preso per un compito di matematica o una tesina di storia o di filosofia, se poi quel voto non riesce a valutare le acquisizioni reali per la «riuscita di un 15enne nella vita», tanto per riprendere la formula-chiave utilizzata dall’OCSE nel suo programma SeDesCo, che ha dato luogo al noto sistema di valutazione PISA. In apparenza, dunque, nella “cultura della valutazione” scolastica è in atto un cambiamento virtuoso a livello non soltanto nazionale – in Francia o in Italia –, ma anche internazionale. Sta uscendo di scena il tipo di valutazione che stigmatizza e ingenera uno spirito competitivo deleterio! Purtroppo si tratta soltanto di un’apparenza. In realtà, queste nuove valutazioni non fanno altro che rafforzare lo spirito competitivo e incoraggiare gli allievi a identificarsi con le valutazioni che ricevono.
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Angélique Del Rey
Avvenire, 30 agosto 2018