UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il preside di Lodoli nella bufera dell’ideale

Nell’ultima delle sue ”favole contemporanee” lo scrittore narra la storia di un dirigente barricatosi nella sua scuola
11 Luglio 2020

Ci sono scrittori che hanno rappresentato una svolta epocale nell’ambito della letteratura italiana, esordendo e imponendosi negli anni Ottanta con libri che hanno rappresentato dei punti fermi per gli scrittori a venire. Alcuni non hanno però ritrovato nel corso di questi trent’anni un significativo riconoscimento da parte della società culturale italiana e della critica stessa, per non parlare dei premi importanti che preferiscono il gioco del “bis” a narratori ben più sponsorizzati, anziché riconoscere l’importanza di chi veramente conta. Uno di questi è Marco Lodoli che proprio con l’ultimo romanzo Il preside pone un punto fermo alla sua ricerca narrativa (ed umana) e svela quanto i suoi libri siano stati ognuno parte di percorso più ampio e di un’opera, nata in itinere, nel tempo, che nel sua interezza diventa uno dei “grandi libri” che meglio rappresenta le ferite di un’Italia tra fine e inizio di un millennio. Ed è un’opera che dovrebbe essere, a breve, riunita in un unico volume, così da poterne seguire le evoluzioni, constatare la tenuta e la fedeltà anche stilistica di uno scrittore che non ha mai giocato la carta delle “mode letterarie” per un pugno di copie vendute in più, ma ha preferito restare fedele a una sua condizione morale di condivisione con la realtà periferica (intorno a Roma), in senso topografico, ma anche umana, mettendo in scena una serie di protagonisti in cerca di un assoluto che potesse salvare l’inclemenza dell’esistenza, perduti in un divario continuo tra realtà e immaginazione, personaggi che rimandano nella loro nostalgia di verità e umanità a impronte da Chagall o dal più espressionista Soutine.

A chiusura del romanzo, Lodoli pone una nota in cui spiega la genesi di questa sua opera che illumina lo scenario della nostra letteratura più recente. Lo definisce un ciclo di dodici romanzi iniziato nel 1989 con I fannulloni e per il quale pensa a un titolo I poveri. Sono gli innumerevoli personaggi che ha messo in scena dai maratoneti alle suore, dagli immigrati ai poeti, dalle domestiche ai pensionati, dai delinquenti ai tassisti abusivi fino al preside, protagonista del nuovo romanzo.

La sua storia si apre con la sua ultima provocazione: chiude tutte le entrate della scuola in cui ha passato gran parte della sua vita, prima da studente, poi da insegnante e infine da dirigente e si barrica nell’edificio. Con lui restano, perché si erano attardati in bagno, una professoressa in crisi e uno studente. Subito si scatena il clamore mediatico con la folla di fronte all’istituto a seguire l’evolversi della situazione e la presenza di un commissario che cerca di convincere il preside alla resa. Le sue intenzioni non sono però violente, anche lui forse ignora il perché di quel gesto, anche se ha con sé il fucile che usava quando andava a caccia, da giovane, con il suo miglior amico, pittore fallito, come del resto lui è stato lo scrittore di un unico libro, premiato, ma che non ha avuto un seguito. Anche la moglie un giorno, dopo tanti anni lo ha abbandonato e lui ha iniziato la caduta in un vuoto che ha avvelenato l’esistenza, costretto a una normalità priva di luce, quella stessa che si alterna nei vari passaggi del romanzo, prima accecante e poi assente, lasciandolo in completa balia di un buio che inghiotte e spaventa.

Il dialogo a distanza con il commissario porta a rivedere i momenti della sua vita, a ricordarli in un contesto che passa dall’allucinatorio al nostalgico, soprattutto quando la memoria riporta alla luce il tempo dell’infanzia e della giovinezza. Il preside si svela, cerca di capire le ragioni del proprio malessere, mette in luce il suo idealismo rispetto a una scuola che non è quella che viene richiesta dalle norme burocratiche, ma che passa attraverso la necessità di andare incontro all’umano, anziché al profitto dato dai voti. Non si limita a una fedeltà taciuta a questo progetto educativo, ma, lui, proprio nella funzione di preside, irrompe nelle classi e mette in discussione la routine del lavoro dei professori. Con conseguenti proteste dei genitori e degli insegnanti, intervento degli ispettori scolastici, perfino una convocazione al Ministero dell’Istruzione, dove, in un racconto di pura dimensione kafkiana, gli viene chiesto di firmare le carte per passare ad altro impiego. Lui però resiste, convinto che «non saranno quattro pezzi di carta a impedirmi di dare all’insegnamento e all’apprendimento una sostanza umana».

Sono alcuni dei momenti cruciali di un racconto che come accade nei romanzi di Lodoli, devia continuamente tra realtà e immaginazione, dove il fantastico assume contorni neri, note di surrealtà, dove l’esilio interiore si fa sempre più profondo e ha bisogno di richiamare l’attenzione verso un assoluto che possa dare un senso all’assurdo di una vita che non si riesce più a condividere con se stessi. «Favole contemporanee» le definisce, a ragione, Lodoli che riprendono «le proiezioni fantastiche di chi non ha saputo abbracciare la vita serenamente, sempre insidiato dalla smania dell’assoluto, dalla bufera della fantasia». Così la scrittura di Lodoli raccoglie e unifica, porta verso una direzione morale, «le zoppicanti preghiere» dei suoi «poveri » e le offre, come segno di una bellezza elusa, a una letteratura in cerca di vera rigenerazione.

Fulvio Panzeri

Avvenire, 10 luglio 2020