Le impegnative sfide tecnologiche, ambientali e demografiche che ci attendono nei prossimi anni ci indicano con chiarezza una principale via da seguire, quella educativa. È in questa prospettiva che abbiamo accolto con favore il tema della alternanza scuola e lavoro. Non certo per piegare la formazione dei ragazzi ai (soli) bisogni del mercato del lavoro, quanto per esaltare la formazione della persona dentro contesti reali ed esperienziali che sono certamente più fecondi e utili di apprendimenti nozionistici là dove siano slegati dalla comprensione del senso delle cose che si leggono suo libri di scuola.
Discuterne non è semplice. È dalle leggi Biagi e Moratti di inizio millennio che si cerca di diffondere una modalità pedagogica che ha come obiettivo l’incontro tra due mondi che spesso non si parlano, la scuola e il lavoro, per contribuire ad una migliore formazione delle competenze degli studenti.
Con la riforma della 'Buona Scuola' l’alternanza è stata resa obbligatoria e ben presto, complici percorsi di alternanza non sempre ben congegnati, sono arrivate le proteste pubbliche degli studenti al grido di 'non siamo operai' e quelle, più silenziose ma forse ancor più determinati, degli insegnanti. Il contratto tra le forze ora al governo definiva l’alternanza uno 'strumento dannoso' e questo è risultato negli interventi previsti dalla prossima Legge di Bilancio.
Nel testo che verrà discusso in Parlamento infatti è prevista una forte riduzione delle ore di alternanza (più del 50%) in tutti i percorsi scolastici e una proporzionale riduzione delle risorse stanziate. Ma ciò che sembra destinato a dare il colpo di grazia all’alternanza scuola-lavoro è il decreto che il Miur dovrà adottare in merito alle linee guida per i nuovi percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. Scompare quindi la parola stessa lavoro affiancata a quella di scuola per un ritorno al termine più rassicurante di orientamento.
Quello della integrazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro è un tema urgente in un Paese martoriato da oltre 2 milioni di under 29 che non studiano e non lavorano. Infatti tutte le statistiche europee ci ricordano che proprio i Paesi nei quali è presente un maturo sistema di istruzione duale sono quelli in cui la disoccupazione e l’inattività giovanile è inferiore. Il punto non è quello di far incontrare il lavoro, qualunque lavoro, in giovane età; quanto aprire le aule scolastiche a tutto quello che le circonda con una formazione che sia crescita integrale della persona: esperienza, relazione, pratica e non solo nozionismo.
La scelta del Governo in carica non deve in ogni caso diventare l’occasione per la difesa a spada tratta di tutto quello che è stato fatto negli ultimi anni. Spesso infatti non si sono promossi percorsi di vera alternanza, nei quali le ambizioni e i desideri dei ragazzi e delle ragazze si sposavano con realtà lavorative che potevano aiutarli nella maturazione di competenze adatte.
Complice un mondo della scuola e dei docenti impreparato e anch’esso lontano dai tessuti produttivi e un mondo delle imprese povero di figure che possono svolgere un ruolo formativo, è capitato che alcuni percorsi degli studenti risultassero poco utili confondendo lo strumento (il contatto con il mondo reale) con il metodo che è pur sempre quello di un apprendimento attivo in situazioni di compito.
Come sempre in Italia, però, l’eccezione è stata portata in piazza e nei dibatti per distruggere la regola e non utilizzata come un esempio negativo da mostrare per migliorare ed eliminare i difetti.
Capiremo nei prossimi mesi l’impatto della riforma varata dal Governo. Non possiamo però rinunciare a coltivare una straordinaria occasione per innovare la didattica e il modo di fare scuola dall’interno, partendo dai ragazzi e dai loro docenti, perché di riforme sulla carta ne abbiamo avute sin troppe in questi anni e nessuna di esse è mai riuscita a incidere sul bisogno di crescita integrale dei nostri studenti.
Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi
Avvenire, 8 novembre 2018