All’inizio era l’emergenza, e su quella non si discute. Poi è venuta l’indecisione, sulla quale invece qualcosa da eccepire c’era, specie quando dalla titubanza saltavano fuori scelte che, da lì a breve, si sarebbero rivelate non adeguate. Ma adesso, a poco meno di due anni dall’inizio della pandemia, la scuola italiana non può permettersi un’altra stagione di incertezza. Per rispetto verso sé stessa, anzitutto. Per non vanificare i sacrifici compiuti nei mesi scorsi da studenti, insegnanti, dirigenti: da tutti coloro che nella scuola vivono e per la scuola lavorano. Il rischio che si delinea in questi giorni, invece, è proprio questo.
Anche chi non eccepisce sulla legittimità del Passaporto Verde richiesto al personale (i renitenti sono una minoranza, d’accordo, ma minaccia di risultare molto rumorosa oltre che, in qualche caso, abbastanza qualificata) si dichiara comunque preoccupato per una serie di elementi strutturali che vanno dalla difficoltà di mantenere il distanziamento all’interno delle classi alla situazione precaria di molti edifici, dal sovraffollamento dei mezzi pubblici all’impossibilità di effettuare ingressi scaglionati. Sono, né più né meno, gli ostacoli di cui già si parlava l’estate scorsa, fatto salvo il dibattito sui banchi rotanti, che a questo punto si candida a essere ricordato come il più costoso e improduttivo tormentone di tutti i tempi.
Non che i rilievi di quanti invitano alla prudenza manchino di consistenza, sia chiaro. Il fatto è che da quando si è cominciato a parlarne è passato un anno, appunto, e non è stato un anno qualsiasi. Nel frattempo l’Italia ha trionfato all’Eurovision e ha quasi espugnato Wimbledon, ha portato a Roma la coppa degli Europei e sta facendo faville nell’olimpica Tokyo.
Possibile, ci si domanda, che questo Paese di atleti vincenti e musicisti eccellenti non riesca a far funzionare il sistema scolastico? Davvero i ragazzi e le ragazze che in queste settimane si riuniscono allegramente sulle spiagge e si spostano in gruppo lungo i sentieri di montagna andranno considerati veicolo di contagio appena tornerà a suonare la campanella? Queste sono domande sincere, non hanno nulla di capzioso, tanto meno pretendono di mettere in discussione gli obiettivi che l’attuale esecutivo ha perseguito fin dal suo insediamento.
Il ritorno in aula (in tutte le aule, comprese quelle universitarie) è una priorità assoluta, si è giustamente ripetuto, allineandosi a un criterio che nel resto d’Europa non è stato disatteso se non nella fasi più drammatiche. Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile archiviare gli strumenti della didattica a distanza, che pure si sono rivelati fondamentali per evitare che l’impoverimento educativo assumesse dimensioni ancora più vaste di quelle che siamo costretti a constatare. Quello che forse continua a sfuggire è che il prossimo anno rappresenta l’ultima chiamata per il futuro del Paese. O si dimostra nei fatti che la scuola ci sta a cuore e ci sta a cuore l’università, la formazione ci sta a cuore, oppure ci si rassegna a un declino che è – questo sì – declino della democrazia: di quella comunità di liberi e uguali di cui la scuola costituisce un elemento irrinunciabile.
La posta in gioco è questa e il mondo della scuola deve esserne consapevole. Reagendo con responsabilità, come e più di quanto abbia fatto finora. La solita storia del rischio calcolato, si potrebbe obiettare. In realtà c’è da sventare un danno incalcolabile. E occorre farlo adesso, non tra un anno.
Alessandro Zaccuri
Avvenire, 8 agosto 2021