Tutti ormai conoscono la celebre serie che ha conquistato il cuore degli italiani: Mare Fuori inizia a essere girata nel 2020 e coinvolge sempre di più, stagione dopo stagione, i telespettatori, che si affezionano alle vicende dei giovani detenuti e di alcuni membri del personale dell’immaginario istituto penitenziario minorile di Napoli, liberamente ispirato al carcere di Nisida. A fare da sfondo, il clima di violenza che, fin da adolescenti, la criminalità organizzata di Napoli fa respirare ai giovanissimi protagonisti. Peccato, però, che la violenza che anima le strade delle nostre città e che coinvolge proprio i più giovani non sia frutto delle fantasiose costruzioni di un abile regista. La quotidianità ci mette a confronto costantemente con episodi di aggressioni perpetrati da quelle che vengono definite baby gang, come nel recente caso del ragazzo autistico aggredito a Firenze da un branco di minorenni.
Tante possono essere le cause che portano i giovani a simili comportamenti: una situazione familiare difficile, con episodi di violenza tra le mura domestiche, o più banalmente crescere in un contesto dominato dalla criminalità. A volte però a macchiarsi di questi atti sono anche i cosiddetti giovani che conducono un’esistenza, se non perfetta, quantomeno ordinaria, ma che vivono dentro di loro il profondo senso di angoscia di essere intrappolati in una società che, nel dettare le sue tempistiche rigidissime, lascia indietro chi non le rispetta, chi non è sempre performante, chi non si adegua allo schema precostituito dell’individuo di successo.
Lo sa bene Simone Borchi, insegnante di religione presso l’istituto professionale di Pistoia De Franceschi-Pacinotti, che quotidianamente si confronta con studenti provenienti da contesti difficili, nel tentativo di trasmettere i valori della non violenza, del rispetto altrui e, non per ultimo, di sé stessi.
«Molti non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, ma avere classi di una trentina di ragazzi ridotte praticamene alla metà mi permette di concentrarmi maggiormente su ciascuno di loro. Ci sono molti stranieri, ma anche molti ragazzi che dopo tante bocciature approdano al primo anno avendo magari già 16 anni, nell’ultimo tentativo di evitare la dispersione scolastica. In queste condizioni, cerco di rendere le mie ore dei momenti di ascolto, in cui far emergere le personalità di ciascuno, lasciare che si aprano, che parlino di loro stessi e di come vedono il loro futuro. Sia dentro che fuori l’istituto capitano spesso episodi di atti violenti, verbalmente o fisicamente, e le dinamiche di gruppo sfociano di frequente in episodi di bullismo verso i più fragili. È compito mio e dei miei colleghi far riflettere sul significato di questi gesti, proporre loro una via diversa da quella dell’aggressività per dare voce a quello che hanno dentro. Non è infatti solo una questione di ambiente e contesto familiare: alla base di tanti scatti di violenza improvvisa e ad atteggiamenti di costante sfida nei confronti di chiunque eserciti su di loro una qualche autorità, c’è la sensazione di essere dei falliti in una società che promuove certi modelli di successo. Insegnare il valore della persona in sé stessa e l’irripetibile unicità del singolo non è sufficiente, ma se non altro indispensabile a prevenire episodi di violenza tra i giovani. Come possiamo pensare che un ragazzo sia portato a rispettare il prossimo se le dinamiche sociali che viviamo lo inducono a non portare rispetto, in primis, a sé stesso?».
Alice Peloni
Avvenire – La Vita Pistoia sette, 5 marzo 2023