UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

«Il buon padre non è perfetto ma c’è, nutre e sa sparire»

Don Rosini: Davanti alla complessità del ruolo educativo, il senso di inadeguatezza è comprensibile
7 Settembre 2021

Per affrontare la crisi della paternità occorre affidarsi a un padre in crisi. «L’immagine di san Giuseppe alla quale sono più affezionato è quella che Matteo presenta all’inizio del suo Vangelo – dice don Fabio Rosini –. “Un uomo giusto” che, davanti alla notizia inattesa della gravidanza di Maria, non sa come comportarsi. Nella sua indecisione, pensa di ripudiarla “in segreto” per ragioni che l’evangelista lascia nell’ombra. Di solito si ritiene che Giuseppe si vergogni, che senta su di sé il peso delle convenzioni sociali. Io sono di un’altra idea: per me Giuseppe intuisce tutta la grandezza della missione alla quale è destinato e questa grandezza, la grandezza della paternità, inizialmente lo spaventa».

Don Fabio Rosini è il sacerdote romano iniziatore del cammino del Decalogo e dei Sette Segni del Vangelo di Giovanni, un percorso che da quasi trent’anni accompagna ed entusiasma moltissimi giovani. Oggi direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma, riassume il suo pensiero in poche parole essenziali, com’è nel suo stile: «Da quando sono stato ordinato nel 1991 mi occupo di giovani – afferma – e da quando mi occupo di giovani mi sono reso conto del vuoto di paternità con il quale i ragazzi e le ragazze devono misurarsi». Una scoperta dolorosa: «Avevo davanti a me queste creature piene di bellezza – ricorda – e vedevo che non riuscivano a sbocciare. Ma non era colpa loro. Non avevano più alcun punto di riferimento, non avevano più nessuno che dicesse loro: ce la puoi fare. Noi esseri umani siamo fatti così, abbiamo bisogno di qualcuno che ci inviti a diventare noi stessi. A fiorire, a splendere».

L’ intuizione del Decalogo è nata da qui. «Dall’urgenza – spiega don Fabio – di segnare un margine, un confine. Non in senso moralistico, per l’amor del Cielo. Ma come esperienza sapienziale, liberante». In questo anno che papa Francesco ha posto sotto il segno del padre putativo di Gesù, Rosini ha voluto dare il suo contributo con un libro edito da San Paolo e intitolato semplicemente San Giuseppe. I tre verbi allineati nel sottotitolo lasciano intuire molto del contenuto: Accogliere, custodire, nutrire.

«Veniamo da un lungo periodo di contestazione della figura paterna intesa come simbolo dell’autorità, è vero – incalza don Fabio –. Ma di per sé questa contestazione aveva i suoi buoni, buonissimi motivi. Se guardiamo al passato, non possiamo nasconderci come la paternità sia stata troppo spesso confusa con il paternalismo, fino a punte innegabili di dispotismo. Già prima della crisi attuale, insomma, la paternità era nella necessità di riscoprire sé stessa. Il punto è che si sarebbe dovuto correggere, non stroncare né tanto meno cancellare. Di un padre abbiamo bisogno tutti, sempre. Di un padre che ci riveli chi siamo e ci valorizzi. Quando non lo fa, quando ti ignora, finisce per castrarti, ma anche in quel caso non ti è mai indifferente. I padri di oggi, purtroppo, sono troppo spesso latitanti e vergognosi. In circostanze estreme e patologiche, cercano di ristabilire il primato ricorrendo alla violenza, e questa è una tragedia nella tragedia. Un padre non si riconosce dal fatto che alza la voce o, peggio ancora, le mani. Si riconosce dalla capacità di dare un nome al figlio, consegnandolo alla vita. Questo ha fatto Giuseppe con Gesù: dandogli un nome ha sancito la sua appartenenza alla stirpe di Davide».

Don Fabio lo ripete di frequente, in modo anche colorito: ci sono troppe madri ipertrofiche, troppi padri inconsistenti. «Che a una cert’ora svicolano verso la porta di casa con la borsa del calcetto, sperando di passare inosservati», scherza. Ma subito torna a insistere: «Davanti alla complessità del ruolo educativo il senso di inadeguatezza è più che comprensibile, ma è a questo punto che viene in soccorso la figura di san Giuseppe. Sintetizzando al massimo, si potrebbe dire che un buon padre non deve per forza essere perfetto. Però deve esserci, esserci sempre, in qualsiasi circostanza. Il requisito fondamentale dell’accoglienza, infatti, non consiste nell’essere belli, ma nell’immaginare la bellezza di colui che si accoglie. Potrà essere debole finché si vuole, ma il padre avrà sempre dalla sua uno straordinario punto di forza, che è la bellezza del figlio».

Il dramma è, appunto, quando la bellezza non viene riconosciuta o quando viene addirittura negata. «Eppure, anche in un’eventualità così tremenda, il padre rimane insostituibile – ribadisce Rosini –. È necessario qualcuno che dica “no”, più ancora è necessario qualcuno che pronunci un “sì” saggio. La chiave di tutto sta in questo equilibrio. Il “no” da solo non è abbastanza e rischia di risultare distruttivo. Ma anche il “sì”, per essere autentico, non può prescindere da un “no”». Una traccia di questa complessità si ritrova in uno dei fenomeni più preoccupanti della nostra epoca. «Come persona chiamata a formare nella fede, conosco bene la suscettibilità che molti manifestano davanti a qualsiasi esercizio di autorità – ammette don Fabio –. Nello stesso tempo, però, tra i giovani permane una disponibilità quasi incomprensibile a consegnarsi interamente, nel- la maniera più indiscriminata, alla prima figura paterna nella quale ci si imbatte. Si passa direttamente dalla contestazione alla venerazione, dallo sberleffo al timore reverenziale. Anche all’interno della Chiesa si corre questo rischio. Tra i sacerdoti la tentazione del paternalismo circola ancora, con esiti agghiaccianti».

La paternità autentica, invece, accoglie per custodire. «In questo senso – aggiunge Rosini – ogni uomo è chiamato a essere padre, così come ogni donna è chiamata a essere madre. La virtù della custodia è simile a quella dell’accoglienza: si fonda sulla consapevolezza di avere tra le mani qualcosa di prezioso, che non può andare sciupato. Una volta che viene assunto con serietà, questo compito porta a comprendere che la vita del figlio è più importante della propria. La Chiesa per prima dovrebbe assumere su di sé questa sollecitudine paterna, coltivando la convinzione che la fede delle prossime generazioni sia più importante della nostra. Solo a partire da questa sensibilità si sviluppa l’iniziativa del nutrire, ossia dell’educare. La radice etimologica è la medesima e rimanda alla capacità di cibare l’altro, senza mai dimenticare che noi stessi siamo stati nutriti da qualcuno. C’è un principio di gradualità da rispettare, perché lo stesso cibo non è adatto a tutti in qualsiasi momento. Educare non significa mettere a disposizione una dispensa dalla quale attingere a capriccio, ma dosare gli alimenti con intelligenza e delicatezza». La discrezione è un tratto distintivo della paternità. «Che presuppone l’arte di sparire, sorella gemella di un’altra arte dimenticata: quella di smettere – suggerisce Rosini –. Si arriva a praticarla quando si ha il coraggio di non assolutizzare sé stessi. Come? Personalmente ho imparato molto dalla malattia. Grazie alla sofferenza ho capito che Giuseppe, il padre, non poteva uscire di scena se non così: in silenzio, lasciando spazio al figlio».

Alessandro Zaccuri

Avvenire, 7 settembre 2021