«E questo mi induce a interrogarmi sulle emanazioni del corpo rappresentate dalla figura, dall’andatura, dalla voce, dal sorriso, dalla calligrafia, dalla gestualità, dalla mimica, uniche tracce lasciate nella nostra memoria da coloro che abbiamo davvero guardato». Quanta verità in questo passaggio di «Storia di un corpo» di Daniel Pennac. L’amore si riconosce da quel che si nota, e resta impresso, dell’essere amato, nella sua totalità: nel suo muoversi nel mondo, nei suoi atteggiamenti, nella luce dello sguardo, in quei piccoli difetti che diventano le perfette imperfezioni, in quella indivisibile unità tra il corpo nella sua fisicità e chi quel corpo lo fa vivere. Se è così, quanto può essere riduttivo, limitante, ristretto, un (ab)uso del corpo, considerato come disgiunto dalla persona?
Il tema della corporeità e dell’affettività, soprattutto quando parliamo di giovani e ai giovani, è qualcosa che deve interpellarci nel saper trovare parole nuove, con radici antiche, che raccontino della bellezza di una relazione sana, improntata sul rispetto reciproco e sull’importanza, necessaria, di scoprire i limiti della persona. Quando parliamo dell’esperienza dell’affettività, facciamo riferimento a una dimensione relazionale cui va riservata un’attenzione speciale, uno spazio prezioso che occorre costruire, coltivare, custodire. L’apporto educativo della tutela dei minori passa anche attraverso l’educazione a un corpo che sia soggetto e non oggetto, a un’esperienza serena dell’affettività. Oggi il pensiero dominante, spinto da una certa pubblicistica che troppo spesso propone modelli di guadagno facile connessi alla svendita del corpo, è quello che si lega alla soggettività assoluta, in cui l’imperativo è la centratura su sé stessi e sul soddisfacimento dei propri desideri, senza dare valore e riconoscimento all’altro e nemmeno, paradossalmente, alla preziosità del sé.
C’è una nuova generazione che cresce a contatto diretto con modi di pensare e di relazionarsi con la corporeità molto diretti, disintermediati, che nel tempo corrono il rischio di diventare rapporti di abuso, perché non c’è rispetto dell’altro. Quanto è importante individuare con precisione il valore del consenso e dell’essere consenzienti? Se ogni cosa è consumo, mercificazione, prestazione basata sull’aumento del gradimento, nel meccanismo perverso dei like, quanto può essere davvero libera la scelta di mettersi in vista a tutti i costi? I meccanismi dell’abuso passano anche attraverso lo sfruttamento delle fragilità, delle insicurezze, degli smarrimenti che sono connaturati al nostro essere umani e che negli anni dell’adolescenza e della giovinezza sentiamo ancora più forti. Chi sono io? Cos’è questo corpo che si trasforma, cosa sono questi sentimenti contrastanti che si agitano nel mio animo e a cui non so dare un nome? Cosa determina la mia fame di volere essere amato, visto, riconosciuto?
Un progetto educativo che abbia a cuore una crescita autentica deve partire dalla persona, dalla sua dignità intrinseca. Chi abusa che visione ha della persona? Vede solo un essere, una cosa, che può utilizzare a suo piacimento. Nell’assenza totale di empatia e di incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni si ritrova una visione nociva della sessualità e della corporeità, mentre il primo principio di una relazione sana è quello del non usarsi e non usare, impegnandosi in scelte coerenti e corrispondenti.
Nella formazione un tema insistito è relativo alla presa di consapevolezza degli abusi. Se le segnalazioni di comportamenti ambigui (o abusanti) stanno pian piano emergendo, è perché attraverso la divulgazione delle linee guida, l’ascolto sul territorio, le pubblicazioni dei sussidi, si comprende che esistono “le parole per dirlo”. E che non abbiamo timore di usarle. La visione sistemica del fenomeno degli abusi spinge su quattro leve fondamentali: formazione, vigilanza, contrasto, accompagnamento. E tutto questo è reso possibile dal coinvolgimento della comunità tutta, perché il primo tassello di un ambiente sicuro è ruolo del contesto, che è la comunità.
La Chiesa, nelle parole di chi se ne è allontanato, è percepita come quell’entità slegata dall’attualità, che vuole soltanto proibire. Al contrario, va reso evidente che le buone prassi aiutano a vigilare su noi stessi e gli altri per riconoscere il male in tempo. I no danno fastidio, ma dovrebbero essere pronunciati a favore di quella ricerca della felicità che approfondisce il perché, il significato di ciò che è. Per questo la prevenzione non è né accusatoria né oppositiva, ma propositiva e dinamica.
I giovani hanno fame di queste cose, il problema è che trovano nutrimenti sbagliati. Scontiamo, a fronte di infiniti dibattiti, una preoccupante lacuna nella presenza di interlocutori e accompagnatori adeguatamente formati su temi su cui i ragazzi sono tanto sensibili quanto facilmente disorientati. E allora, se ci chiediamo quale contributo possiamo dare come Servizio per la tutela dei minori a quello che è il progetto educativo di una pastorale dedicata ai giovani, la prima domanda è: in che cosa possiamo lavorare insieme? La prospettiva giusta è nel camminare su un percorso comune, aiutandosi reciprocamente con quella sinergia positiva del formare e informare comunità e persone, in cui si è d’accordo che fare certe cose non è un bene. Puntiamo a un modo più bello e più sano di relazionarsi, all’essere testimoni credibili del vivere relazioni buone, in cui tutti si sentano bene. E al sicuro.
Emanuela Vinai
Avvenire, 1 maggio 2024