Fraternità, missione urgente per Chiesa e famiglia sollecitate dalla Fratelli tutti anche a ripensare i propri compiti educativi. Quali gli esempi, i gesti e le parole per aiutare i più piccoli a scoprire un tratto ineludibile e costitutivo della nostra umanità? Sorride Ezio Aceti, psicologo dell’età evolutiva, coordinatore degli “Sportelli di ascolto” per alunni, genitori e docenti in molte scuole lombarde, autore di decine di studi sul tema. Sorride e scuote la testa: «Non è necessario. Dio ha affidato alla famiglia grazie particolari per svolgere il proprio compito educativo. È come se i genitori fosse naturalmente strutturati per educare. E il cuore dell’educazione è proprio la scoperta della fraternità. Certo, il disegno di Dio può essere più o meno ritardato dai nostri limiti. La fraternità, secondo alcune prospettive, è solo utopia. Eppure il Papa non si pone il problema, va avanti come se la fraternità fosse un dato naturale, un “già e non ancora”». Un discorso adeguato per il credente, ma il Papa, visti i temi di respiro universale, ha evidentemente pensato l’enciclica anche per chi sta sulla soglia e si interroga. Con queste persone come si fa a ragionare sull’educazione alla fraternità? «L’educazione non è un impegno confessionale, ma riguarda l’intera società, in tutti i suoi componenti. Rimettere al centro l’uomo con il suo bisogno di relazioni, va al di là della fede».
Tanti nella nuova enciclica i passaggi su cui credenti e non possono convergere in questo sforzo educativo. Al numero 53 Francesco scrive: Non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici. Aceti s’illumina: passaggio bellissimo, osserva, proprio in una chiave di fratellanza universale. «Lo spiegherei così: per noi credenti la radice è Dio. Ma per un non credente la radice è la sua stessa storia». Ci sono radici comuni nella fraternità? «Ne vedrei almeno cinque. La prima: una persona non può vivere senza l’altro. Come diceva Emmanuel Levinas: è l’altro che mi fa esistere. La seconda: noi siamo programmati per l’amore. Anche la persona più fragile e problematica se capisce di essere amata, può ripartire e rimettersi in sesto. L’amore ripara tutto. Terzo: ogni volta che facciamo qualcosa di vero proviamo gioia, riconosciamo di essere autentici con noi stessi. Quando facciamo qualcosa di falso – prosegue lo psicologo – proviamo tristezza. Ecco perché tutti i momenti e le situazioni di fraternità ci portano letizia. Quarto: abbiamo dentro un antivirus naturale che ci offre sempre la possibilità di ricominciare e di crescere. Se ci stanchiamo di avanzare, tutti, giovani e anziani, cresciamo in umanità. Quinto: tutti noi, come diceva, il filosofo gesuita Michel de Certeau, abbiamo tre orecchie, due visibili, la terza per cogliere i messaggi interiori».
D’accordo, ma se volessimo trovare una strategia per educare alla fratellanza, su cosa dovremmo puntare? «In principio era il Verbo, si dice all’inizio del Vangelo di Giovanni. Ecco, lo strumento per costruire la fratellanza è la parola. Con la parola possiamo fare la guerra o la pace. La realtà profonda della parola fraterna è trinitaria. Non è un ragionamento confessionale, ma assolutamente laico. Quando io esprimo empatia verso un’azione compiuta (“Sono contento di...”. Oppure: “Mi spiace che tu non sia riuscito a…”) mi esprimo da padre. Quando prendo atto della realtà e mostro di aver imparato dall’esperienza ricalco il modello del figlio. Quando rimando a una volontà di sostegno (“Sono sicuro che la prossima volta saprai che cosa fare”) faccio riferimento allo Spirito Santo. Il sostegno è un grande gesto educativo. Che vuol dire: non devi fare quello che ti ho detto io, ma se quello che ti ho detto riesce a suscitare in te la bellezza e tu da solo capirai quello che è opportuno fare, il percorso dell’educazione è compiuto. L’obiettivo ultimo dell’educazione è contribuire alla scoperta dell’universalità che ciascuno di noi conserva nel cuore, di cui la fraternità è l’ingrediente più importante».
Il traguardo della fraternità ha un rapporto diretto con la pace? Il Papa ci dice che l’artigianato della pace ci coinvolge tutti (FT 232). L’impegno educativo della famiglia come entra in questo? «La pace comincia in famiglia. Quando, in ogni situazione, facciamo vedere il positivo dell’altro, quando di fronte a un immigrato, a un disabile, a una persona fragile, non ci limitiamo ai soliti luoghi comuni, agli aspetti distruttivi, ma mettiamo in luce gli aspetti meno scontati, facciamo una grande opera di educazione alla pace. Ed è qualcosa a cui ci siamo disabituati. Eppure è fondamentale vedere il bello, il positivo e come dice il Papa, la gentilezza». Perché è importante? «Perché se non mi stanco di mettere in luce il positivo, chi mi ascolta diventerà positivo. La pedagogia dice: meglio lodi date con pertinenza che continui castighi e rimproveri. È il metodo di don Bosco e delle sue scuole professionali: anche il ragazzo più disastrato, se accompagnato a costruire il bello, si trasforma e diventa una persona positiva. Un uomo di pace in una prospettiva di fraternità senza confini.
Luciano Moia
Avvenire, 10 ottobre 2020