Il decreto, firmato ieri dalla ministra Valeria Fedeli, per avviare un «Piano nazionale di innovazione ordinamentale per la sperimentazione di percorsi quadriennali di istruzione secondaria di secondo grado» consentirà dall’anno scolastico 2018-19 di far partire in cento scuole superiori altrettanti percorsi di studio organizzati su quattro anni, anziché sui tradizionali cinque. Tutte le scuole superiori – statali e paritarie, licei e istituti tecnici – potranno presentare entro la fine di settembre i progetti che verranno vagliati da una commissione nazionale. È la prima volta che in Italia si ha il coraggio di avviare un progetto organico su di un tema molto scottante, soprattutto (ma non solo) per i sindacati, dopo vent’anni di discussione sull’opportunità che anche gli studenti italiani finiscano le superiori a 18 anni, come avviene nel resto del mondo, anziché a 19 come avviene ora. Lo scopo della sperimentazione è validare delle nuove modalità di organizzazione didattica dei diversi indirizzi di studio. Ripensare a un percorso quadriennale di istituto tecnico o professionale costruito in raccordo con il mondo del lavoro e gli Its (i percorsi post-diploma che nascono per introdurre al mondo del lavoro secondo il modello duale tedesco) è, infatti, molto diverso che ripensare un indirizzo liceale. In tutte e due i casi, però, si tratta di riflettere a fondo sulla proposta educativa che facciamo ai nostri studenti. È un fatto, purtroppo, che in Italia i ragazzi non escono preparati in modo adeguato dalle scuole medie, non sono aiutati a scegliere in modo consapevole l’indirizzo di studio successivo e spesso trovano delle scuole superiori incapaci di accoglierli, di motivarli e di metterli al lavoro.
I dati lo dimostrano: uno studente su quattro nel corso del primo biennio viene bocciato o è costretto a cambiare corso di studi e il 15% abbandona la scuola senza conseguire un diploma o una qualifica professionale. Guardando ciò che accade dopo il diploma, la situazione appare ugualmente scoraggiante, perché il 14% dei ragazzi che si iscrive all’università abbandona nel corso del primo anno, in pochi proseguono gli studi nei percorsi terziari non accademici (gli Its) e chi intenderebbe affacciarsi subito al mondo del lavoro rimane troppo tempo in un limbo che alimenta il fenomeno dei cosiddetti neet (i giovani che non studiano, non si aggiornano e non lavorano). Si potrebbe pensare che, in una situazione simile, accorciare di un anno la scuola superiore potrebbe risultare deleterio, perché evidentemente i nostri alunni non sono abbastanza preparati. In realtà, non è così.
Quando si discute di scuola, troppo spesso non si tiene conto di tutto il tempo prezioso che sprechiamo nel corso delle 13mila ore che i ragazzi passano in classe dalla prima elementare alla quinta superiore. Non parlo solo del tempo dilapidato per la possibile incompetenza di alcuni docenti, ma anche di quello che va sprecato per una proposta poco significativa. Ripensare a un progetto di scuola superiore articolato in quattro anni può – può! – diventare l’occasione per una revisione globale della nostra proposta educativa anche nei percorsi ordinari.
Non esiste la bacchetta magica, il ruolo centrale in questo possibile cambiamento lo hanno sicuramente gli insegnanti e i dirigenti, ma occorre un coinvolgimento responsabile delle famiglie e della società civile. In estrema sintesi: se i nostri studenti svolgessero un percorso efficace di apprendimento e di orientamento nel corso del primo ciclo e se le scuole superiori progettassero un indirizzo adeguato in raccordo stretto con l’università e il mondo del lavoro, i nostri studenti potrebbero acquisire gli strumenti per proseguire gli studi universitari e affacciarsi al mondo del lavoro in quattro anni, come tutti i loro coetanei nel mondo. La verifica dopo la sperimentazione consentirà di decidere sulla base di un quadro definito.
Elena Ugolini
Avvenire, 8 agosto 2017