Domanda fondamentale. È possibile pensare a una legge sull’educazione di genere senza precisare non solo cosa si intenda per genere, ma anche lasciando nel vago l’idea di persona a cui si vorrebbe far riferimento? Evidentemente no. Eppure è proprio questo il percorso accidentato – non si sa bene se più rischioso o più ambiguo – su cui pretende di avviarsi la Commissione cultura della Camera. Nei giorni scorsi è stato varato il testo unificato, elaborato dal Comitato ristretto della commissione. Si intitola appunto 'Educazione di genere' e sarà quello da cui partire per proporre gli emendamenti, votare e poi mandare la legge all’esame dell’Aula. Formalmente nulla di definitivo – anche perché i tempi non si annunciano brevi e rimane sempre sullo sfondo la fine della legislatura – di fatto un testo che, essendo già il risultato di un lungo lavoro di cesello tra proposte diverse e sensibilità quasi inconciliabili – ce n’erano tredici ai nastri di partenza – non dovrebbe subire scossoni troppo bruschi. E non si capisce bene se questo potrebbe risultare un esito auspicabile o meno. Il lavoro della commissione cultura, presieduta da Flavia Nardelli (Pd), sarebbe stato diplomaticamente esemplare. Ma se è vero che sono stati contenuti gli attacchi estremi, come quelli che puntavano a introdurre nelle scuole un’educazione alla sessualità fluida e onnicomprensiva, secondo le peggiori teorie gender, è altrettanto vero che il compromesso appare ora denso di riferimenti tanto vaghi da risultare non meno pericoloso.
Sarebbe stato forse necessario chiedersi in via preliminare se fosse davvero necessaria una legge sull’educazione di genere. Tanto più in un clima culturale come quello in cui siamo immersi, dove le pretese di svuotare di senso questa, e tante altre parole, per imprimere significati ideologicamente predeterminati, rischia di di- sorientare e di confondere. Soprattutto nella scuola. In questo senso il testo unificato messo a punto dalla Commissione cultura è un capolavoro al contrario. Già nell’articolo 1 si parla di competenze socio-affettive e di genere – senza specificare naturalmente di cosa si tratti – e si spiega che «al fine di acquisire tali competenze, i curricola scolastici di ogni ordine e grado, sono integrati con l’educazione interdisciplinare ai principi di pari opportunità, all’educazione socio-affettiva, alla soluzione non violenta dei conflitti interpersonali, alla prevenzione della violenza e di tutte le discriminazioni e al contrasto dei discorsi di odio». Ora, chi può sostenere che non siano da reprimere discorsi di odio, discriminazione e violenza? Oppure che la 'soluzione non violenta' dei conflitti interpersonali non sia più opportuna del suo contrario? Rimane però difficile da comprendere come le 'competenze di genere' possano incidere nel perseguimento di questi obiettivi.
Mistero che s’accresce quando, all’articolo 2, sui 'Compiti del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca', si indica che i provvedimenti ministeriali devono anche fornire «indicazioni relative all’uso del linguaggio di genere». E di cosa si tratta? Il riferimento è, come al solito, neutro, cioè interpretabile secondo una gamma di varianti opposte. Se l’accenno è a un gergo biecamente maschilista, giusto il proposito di reprimerlo. Se, al contrario, si parla di linguaggio 'di genere' per aprire la strada a letture antropologiche diverse, conosciamo l’antifona. Non vorremmo fosse la stessa già vista nell’insidioso manualetto proposto qualche anno fa dall’Unar (Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone Lgbt) dove si raccomandava, tra l’altro, di parlare sempre di 'famiglie' al plurale visto che l’estrema varietà di declinazioni sul tema avrebbe di fatto oscurato la desueta composizione moglie- donna e marito-uomo. Diverse le parole, non molto diverso il significato. Ma dove il testo del disegno di legge si supera è all’articolo 3. Al comma 1 si legge che il «piano per l’educazione socio-affettiva e di genere... è volto allo sviluppo delle competenze socio-affettive e di genere, attraverso la promozione di cambiamenti nei modelli comportamentali, l’eliminazione di stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni e altre pratiche socioculturali fondati sulla discriminazione delle persone in base al sesso». Ora, che nella nostra esistano gravi forme di discriminazione sessuale, non è un mistero. Che alcuni stereotipi particolarmente inquinanti nelle dinamiche relazionali debbano essere superati, è palese. Ma serve chiarezza. Occorre circostanziare, definire, offrire indicazioni non ambigue. Perché sappiamo che secondo alcune teorie del gender stereotipo è anche la famiglia fondata sulla differenza sessuale. E che, sempre secondo questa lettura, occorre educare i nostri ragazzi a rovesciare appunto 'pregiudizi e costumi'. Come si proponevano i tristemente noti libretti dell’Istituto Beck e come cercano di fare alcuni spettacoli teatrali – tra gli altri 'Fa’afafine' – tuttora proposti nelle scuole. Se è questa è l’educazione di genere, grazie, non ne avvertiamo la necessità.
Luciano Moia
Avvenire, 15 febbraio 2017
Susy Zanardo legge e rilegge il testo unificato del ddl 'Educazione di genere' scuotendo la testa. Docente di filosofia all’Università Europea di Roma, autrice di numerosi saggi sul gender, relatrice in vari convegni organizzati dall’Ufficio famiglia Cei sulla differenza sessuale, non riesce a digerire i numerosi passaggi oscuri di un testo che definisce incoerente nei contenuti e confuso dal punto di vista lessicale.
Cosa non la convince professoressa Zanardo?
Si parla di competenze socio-affettive e di educazione di genere ma lo si fa in modo poco rigoroso, impreciso, ambiguo. Nonostante i tecnicismi disseminati nell’articolato, l’obiettivo risulta oscuro e per nulla comprensibile.
Perché parla di imprecisione?
Perché nel testo, già all’articolo 1, si accenna per esempio alle pari opportunità, all’educazione alla parità dei sessi e al rispetto delle differenze di genere come di 'principi'. Ma, a parte il fatto che non si possono mettere sullo stesso piano tre punti così diversi, parlare di 'principi' è sbagliato, visto che non si tratta di questioni delineate con chiarezza e universalmente condivise.
Perché si è scelto di lasciare nel vago questioni così importanti?
Forse perché si è tentato di conciliare posizioni politicamente tanto distanti. Oppure perché, proprio come affermano alcune teorie gender, non c’è nulla di più indefinito del genere. Una delle studiose di riferimento di queste teorie, la sociologa americana Judith Butler, afferma per esempio che il termine genere 'non è mai davvero quello che è in nessun momento dato'. Ovvero, ogni significato dev’essere mantenuto nell’indeterminatezza. Mi pare che in questo caso ci sono riusciti molto bene.
Ma un conto sono le teorie, un altro è una legge rivolta alla formazione scolastica, no?
Certo, è proprio per questo che non si possono tollerare le ambiguità. Quando si parla di parità di genere e di differenza di genere come se fossero sinonimi, si introduce una confusione semantica che rischia di oscurare il proposito da cui muove il legislatore. Che cosa si propone in realtà chi vuole questa legge? Non lo si dice chiaramente. Oggi il genere è un macro contenitore dove ci può stare dentro di tutto. Ma, proprio per questo, occorre chiarezza. E qui non c’è.
Forse il rischio più grande è quello connesso all’articolo 3, dove si dice di voler superare stereotipi e pregiudizi senza specificare quali.
Sì, il margine è davvero troppo ampio. Quali criteri si intendono adottare per realizzare questo obiettivo? Qui, non dimentichiamo che si parla di educazione, di programmi scolastici. Nel clima torbido che si agita attorno alla questione del gender, spesso pervaso da rabbia e da angoscia, gli educatori hanno una preliminare e ineludibile responsabilità, proteggere i ragazzi dall’essere resi uno strumento di confronto politico e ideologico. Qui non mi pare che questo senso di responsabilità emerga. Anzi. Proprio la decisione di lasciare tutto così indefinito, apre la strada al sospetto di una scelta ideologica.
Luciano Moia