Che cosa sta facendo il 6% degli alunni che, secondo il monitoraggio del Ministero dell’Istruzione, non è raggiunto da alcuna forma di didattica online? Si tratta di oltre mezzo milione di bambini e ragazzi, molti dei quali di famiglie non italiane, che rappresentano la parte più debole della comunità scolastica. Sono quelli che rischiano di perdere la gran parte, se non la totalità, di quei 10 milioni di ore di lezione che, secondo Tuttoscuola, la didattica a distanza avrebbe permesso di recuperare, da quando sono state chiuse le scuole. Sono, per esempio, i bambini del progetto “Fuoriclasse” di Save the children, che in quattro città (Torino, Milano, Bari e Aprilia), segue oltre tremila bambini e ragazzi di famiglie svantaggiate. Di questi, il 46% si è trovato a casa senza pc e tablet e il 51% senza accesso a internet. L’organizzazione ha provveduto a distribuire 220 tablet e altrettante connessioni wi–fi. Ma tanto resta ancora da fare per garantire davvero a tutti il diritto allo studio. Per venire incontro anche a queste situazioni, il Ministero ha messo in campo un finanziamento straordinario di 85 milioni di euro, 70 dei quali dedicati, appunto, a dotare di device e connessioni gli alunni ancora sprovvisti. Nel frattempo, lo spirito di servizio e la fantasia di tanti insegnanti ha fatto il resto.
«Con la collaborazione dei servizi sociali del Comune, siamo riusciti a fare avere due tablet anche al campo rom della Falchera, estrema periferia, dove vivono alcuni bambini della scuola primaria del quartiere», racconta Paola Pellegrino, coordinatrice di “Fuoriclasse” a Torino. Ma non sempre le situazioni si risolvono e i bambini restano completamente esclusi dalla vita, seppur virtuale, del gruppo classe. Succede, per esempio, alla scuola primaria “Don Milani” di Pisa, dove il 30% degli scolari è di origine non italiana. «Dall’11 marzo – dice il maestro Luca Randazzo – ho completamente perso le tracce di una mia alunna di terza elementare. È una bambina rom bosniaca che abita in una casetta del campo appena fuori dalla città. Per un certo periodo sono riuscito a tenere contatti con la sorella di 18 anni. Ma anche lei non è in grado di seguire la piccola per la didattica a distanza. Ha un cellulare ma non è adatto per le lezioni online».
Il maestro Luca non si è perso d’animo e ha contattato i servizi sociali. Ora invia per mail gli esercizi a un’operatrice, che li stampa. Quando può e quando si ricorda, la sorella passa a ritirarli e li porta al campo. «Ma finora non ho ricevuto alcun riscontro – commenta l’insegnante –. La scuola può fare il 50% del lavoro, ma per l’altra metà la famiglia ci deve venire incontro. Per tanti, però, non è facile».
Già, ci sono famiglie per le quali, in questo momento la scuola non è in cima alla lista delle priorità. Famiglie che fanno quello che possono. Come mamma Glory, nigeriana, che abita anche lei al quartiere Falchera. Ha quattro figli, di cui una bambina in quinta elementare e un maschietto in quarta. Gli altri due sono più piccoli. Tutti e cinque stanno nell’unica stanza della casa e i più grandicelli cercano, come riescono, di seguire le lezioni a distanza. Il problema è che, entrambi, possono contare unicamente sullo smartphone della madre. E, quindi, sono costretti a fare i turni. «Io non riesco ad aiutarli perché devo stare con i più piccoli», dice la donna. Che è dispiaciuta per i disagi che i suoi ragazzi devono patire. Ma, al momento, non ha alternative.
Come non le hanno le tante famiglie di Arzano, cintura Nord di Napoli, dove c’è l’Istituto comprensivo diretto da Fiorella Esposito. «Tutti gli alunni sono stati raggiunti dalle insegnanti», tiene a sottolineare la preside. Solo che, ammette, «appena il 60% riesce a seguire con costanza le lezioni a distanza». Il restante 40% si barcamena tra messaggi Whatsapp, fotocopie e altre strategie. Alcuni non fanno niente perché non c’è nessuno che si preoccupi di loro. Perché, racconta la dirigente, «con la chiusura di tante attività, ci sono nuclei che hanno davvero il problema di portare in tavola il necessario per vivere». E la scuola viene sacrificata. «Siamo molto preoccupati non soltanto per l’oggi ma anche e soprattutto per il futuro – osserva la preside Esposito –. Se, come sembra, dovessimo tenere il distanziamento sociale anche per il prossimo anno scolastico, non sapremmo davvero dove mettere i nostri 900 alunni. Abbiamo i banchi doppi dove si sta gomito a gomito. Non abbiamo lo spazio per rispettare le distanze. Anche questo sarà un problema da affrontare, prima o poi».
Con i gravi problemi economici delle famiglie, deve fare i conti anche Cecilia Ogliengo, insegnante di Italiano all’Istituto comprensivo di Corso Vercelli, al quartiere torinese di Barriera di Milano. Qui il 70% di alunni è di origine straniera o di famiglia immigrata. «Con fatica – racconta – siamo riusciti a raggiungere l’85% dei ragazzi. Ma abbiamo un 15%, circa 50 studenti, che non sentiamo dal 24 febbraio, da quando in Piemonte sono state chiuse le scuole. Abbiamo tempestato di telefonate i genitori, ma ugualmente qualcuno non si è mai connesso. Altri lo fanno quando possono, quando nessuno usa il telefono o quando riescono a collegarsi a Internet. Ad alcuni ragazzini particolarmente in difficoltà abbiamo consegnato tablet e chiavetta. Ma da soli non ce la facciamo ad arrivare a tutti. Per noi insegnanti è una vera sofferenza».
Invece, per il Paese, tutto ciò «può rappresentare un gravissimo vulnus democratico e un’ipoteca sul futuro di tutti», è il monito di Anna D’Auria, segretaria nazionale del Movimento di cooperazione educativa, che ha lanciato il Manifesto per la “resilienza creativa” della scuola. «In questo momento – sottolinea la docente – occorre uno sforzo collettivo e una lettura condivisa delle implicazioni che la chiusura delle scuole, la didattica a distanza stanno avendo sul diritto allo studio e sui diritti dei minori. Trasformare la crisi in opportunità è possibile – avverte – se i singoli, le istituzioni, le parti sociali metteranno in campo il meglio di sé per adempiere ai compiti che la Costituzione assegna loro: rimuovere gli ostacoli».
Paolo Ferrario
Avvenire, 5 aprile 2020