L’abbiamo letto tante volte, in questi anni: la pandemia e il lockdown – con l’isolamento sociale e la didattica a distanza – hanno influenzato negativamente la salute mentale dei ragazzi, con conseguenze che si registrano ancora oggi e che dell’evento pandemico sembrano l’onda più lunga. Ora invece una ricerca – pubblicata sul Journal of the American Medical Association e firmata da una trentina di medici e docenti in diverse università della Penisola – s’insinua come un tarlo nella narrazione a cui ci si era assuefatti, ne mina la solidità e costringe a rileggere quel periodo, spazzando via quelle che adesso rischiano di apparire solo come semplificazioni mediatiche. Rivela infatti il campione studiato dai medici: tra gli under 18 i casi di suicidio tentato o ideato non sono aumentati nel contesto dell’isolamento del lockdown e della didattica a distanza, bensì con la riapertura delle scuole e il ritorno sui banchi. «In realtà la ricerca – spiegano Daniele Marcotulli e Chiara Davico, medici all’Ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino e primi autori dello studio – è iniziata ben prima del Covid quando la letteratura internazionale aveva già registrato un aumento del disagio psicologico tra i giovanissimi. Anche noi volevamo valutare l’impatto di alcuni fattori ambientali sulla salute mentale degli adolescenti e abbiamo cominciato concentrandoci sulla scuola, che in quella fascia d’età è uno degli ambienti più importanti. La pandemia e il lockdown hanno rappresentato per noi un esperimento naturale, visto che hanno causato l’interruzione della frequenza scolastica in un momento diverso dall’abituale».
Approfittando della situazione, i sanitari hanno analizzato i 13.014 accessi degli adolescenti ai pronto soccorso di 9 ospedali universitari italiani, da Nord a Sud, nel periodo dal 2018 al 2021 e hanno notato che, quando i ragazzi frequentavano le lezioni in presenza, le richieste di intervento per emergenze psichiatriche acute e, in particolare per tentativi di suicidio e pensieri autolesionisti, aumentavano del 18% rispetto a quando gli insegnamenti erano sospesi o trasferiti online. In crescita durante il periodo scolastico anche le visite per disturbi alimentari che, però, non appaiono direttamente proporzionali alla presenza in classe ma più genericamente alla ripresa delle lezioni in ogni forma. Il fenomeno riguarda più le femmine dei maschi: un dato in linea con le ricerche internazionali. A livello italiano, però, questi sono i primi dati così ampi e robusti, anche se la ricerca è solo un punto di partenza e resta molto interrogativa. «Come clinici, ma siamo nel campo delle ipotesi tutte da verificare – commentano Davico e Marcotulli – per ora ci siamo fatti l’idea che il problema possa essere la performance, da sostenere sia a livello didattico sia nel rientro del contesto tra pari». In questo senso le lezioni a distanza – eliminando lo stress della presenza fisica e forse anche qualche difficoltà oggettiva delle verifiche – potrebbe avere tolto la fonte di stress.
«Sì, all’inizio – conferma Alessandra Carenzio, professoressa associata di Didattica presso l’Università Cattolica di Milano – si subiva il digitale e gli studenti trovavano il modo per dribblare i controlli e non seguire le lezioni. Poi, nella maggior parte dei casi, le scuole si sono ingegnate e hanno usato gli strumenti digitali per insegnare in nuove modalità. Non necessariamente quella a distanza era una scuola più facile ma sicuramente c’erano meno pressioni, senza interrogazioni davanti ai compagni e con compiti più personalizzati. Oggi alcune scuole hanno fatto tesoro dell’esperienza e impiegano una didattica più partecipativa; altre sono tornate alla vecchia routine, ripuntando tutto sulla performance. Secondo me è un errore: i ragazzi si bloccano per la paura di sbagliare, invece la didattica dovrebbe chiarire che l’errore è un momento di crescita».
Attenzione, però, a puntare il dito contro la scuola. Maura Foresti, psicologa, psicoterapeuta e membro della Società psicoanalitica italiana, da anni consulente in una scuola superiore, fa notare che per un ragazzo la scuola è per forza una fonte di stress. «Se non lo fosse, ovviamente in una misura ragionevole, – ragiona l’esperta – non svolgerebbe la sua funzione educativa. Per capire l’origine del disagio degli adolescenti io sposterei l’attenzione dalla scuola all’intera società. A noi stessi e ai ragazzi ripetiamo “se vuoi, puoi”, ponendo così l’accento sulla produttività e instillando un eccesso di positività che non contempla mai il limite, la frustrazione o la sofferenza. La vita, però, non è così: bisogna confrontarsi con delusioni e fragilità. È importante dire ai ragazzi che il dolore è parte dell’esistenza e insegnare, anche attraverso la didattica, a tollerare che crescere è fatica. Altrimenti si scolla il rapporto tra la percezione personale e la realtà e – come reazione – può scattare la violenza, verso se stessi o verso gli altri, che negli adolescenti si manifesta in modo più potente». Questo modello di società è stato messo in crisi dalla pandemia perché, ad un tratto, era evidente a tutti che le cose non stavano andando bene; ma, secondo Foresti, il disagio è esploso al rientro perché «proprio come quando ci infortuniamo un arto, il dolore lo sentiamo non quando è immobilizzato ma quando riprendiamo a muoverlo».
Nel ritrovato contesto scolastico, poi, i pensieri suicidi covati in solitudine potrebbero essere dilagati più facilmente. Infatti, come si influenzano nel modo di vestire e di parlare, gli adolescenti, stando insieme, possono contagiarsi anche in aspetti più patologici come l’adozione di comportamenti disfunzionali. Ma il confronto con gli altri può diventare problematico anche per un’altra ragione. «Oggi – rileva ancora Foresti – si tende a fare figli spesso unici a età sempre più avanzata. Questo fa sì che si investano i figli di molte aspettative e del compito di mostrare le abilità dei genitori attraverso la loro riuscita: tutti vorremmo un figlio geniale o campione. E così, se la scuola non certifica ogni talento o il figlio non brilla come atteso, il mondo crolla».
Insomma, gli aspetti che concorrono a questo stress che sembra diventato viscerale per una generazione sono tutt’altro che facili da elencare o interpretare. Evidenziarne la complessità è dunque il più grande merito di questa ricerca, su cui gli autori raccomandano: «L’ unica cosa certa rilevata è la correlazione tra scuola e le segnalazioni di emergenza psichiatrica: il resto sono ipotesi. Questo studio è un primo dato, un punto da cui partire per approfondire un fenomeno che ha varie sfaccettature e che proponiamo di indagare nella maniera più scientifica possibile».
Ilaria Beretta
Avvenire, 22 settembre 2024