Lo slittamento del disegno di legge Zan sulla c.d. “omotransfobia” consente maggiore riflessione sul tema. Il testo propone di estendere i reati di discriminazione o di provocazione alla violenza realizzati per motivi «razziali, etnici, nazionali o religiosi» e delle relative aggravanti anche ai casi in cui tali fatti siano posti in essere per motivi «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». L’intento di garantire il rispetto di tutte le persone, indipendentemente dal loro sentire in tema di affettività o sessualità, risulta del tutto condivisibile e va perseguito con impegno unanime.
Tuttavia, mentre sono oggi ben definiti sul piano oggettivo i motivi «razziali, etnici, nazionali o religiosi», in quanto non legati a mere sensibilità soggettive, lo stesso non può dirsi per un nuovo e specifico delitto consistente nella commissione di generici «atti di discriminazione» e, soprattutto, nella «istigazione» a commetterli, fondati su una visione personale circa il modo di vivere l’affettività e la sessualità. Con il conseguente rischio dell’apertura di processi penali in base alla mera espressione di punti di vista sul piano etico, filosofico, pedagogico, psicologico o religioso. La “minaccia” di un procedimento giudiziario finirebbe per accreditare nella società soltanto determinati orientamenti di pensiero in materia di affettività o sessualità a discapito di altri.
Nel nostro ordinamento, in realtà, sono già previste sanzioni penali applicabili sia per atti di violenza, sia per altri tipi di offesa nonché per il caso di diniego di specifici diritti garantiti dalla legge: con possibile aggravio della risposta sanzionatoria ove simili illeciti vengano commessi sulla base di motivi particolarmente riprovevoli, come appunto - secondo le applicazioni della nostra giurisprudenza - l’ostilità verso le persone omosessuali.
Si pone, allora, l’interrogativo se le modifiche normative proposte, con l’introduzione di un nuovo reato generico e dai confini incerti - rispetto a condotte che, a ben vedere, sono già previste come aggravanti da valutare caso per caso - risultino ragionevoli o finiscano per produrre effetti problematici in merito alla certezza del diritto e all’esigenza di garantire una libera espressione di opinioni.
Appare, dunque, auspicabile riprendere criticamente l’intera problematica al fine di giungere a soluzioni largamente condivise, con l’obiettivo di consolidare nella nostra società la percezione del rispetto incondizionato verso qualsiasi persona, a prescindere dalle sue condizioni, dai suoi convincimenti o dalle sue scelte di vita. Non senza dimenticare che la condanna al carcere - in luogo di forme di giustizia orientate soprattutto alla risocializzazione - finisce fatalmente per non contribuire alla revisione di avversioni e pregiudizi dettati da ignoranza o da scarsa integrazione, con prevedibili effetti ulteriormente divisivi e di radicalizzazione, in tali individui, del senso di ostilità verso determinate persone.
Alberto Gambino, presidente Scienza & Vita
Roma Sette, 11 aprile 2021