UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

C’è poesia all’altezza del cosmo?

Difficile vedere intorno a noi un’immaginazione che sappia tenere il passo dell’astrofisica E la fede? E la teologia?
7 Dicembre 2022

Che cielo avrà visto il re Davide? Orione, l’Orsa maggiore e le Pleiadi, nominate dalla Bibbia. Avrà osservato il ruscello brillante della Via Lattea. Tra Cassiopea e Pegaso – indisturbato dall’odierno inquinamento luminoso – avrà scorto con nitidezza la macchiolina bianca di Andromeda, non sapendo che si trattava di una galassia al di fuori della nostra, per l’ottima ragione che fino a cento anni fa nessuno sospettava l’esistenza di altre galassie (grazie di cuore, caro Hubble, per averla scoperta!).

L’universo di Davide coincideva col cielo visibile a occhio nudo: gli astri che orientavano i marinai nella notte, le stelle e i pianeti che fissavano le date del calendario. Ma per l’antico re d’Israele, il firmamento non era solo una mappa dettagliata e un cronometro infallibile. Per lui il cielo era poesia. Il Salterio gli attribuisce lo sguardo incantato di una lirica, il Salmo 8: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita / la luna e le stelle che tu hai fissate / che cos’è l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi?».

In realtà, forse si tratta di una composizione del quinto secolo avanti Cristo. Probabilmente suppone una liturgia notturna: la veglia dei sacerdoti, nel tempio di Gerusalemme, sotto un cielo stellato. In ogni caso, è opera di un poeta raffinato, come si ricava dalla bellezza dell’atmosfera creata e dagli effetti sonori dell’originale ebraico. La visione delle stelle e della luna innesca il fuoco poetico che, accendendo la domanda «Che cos’è l’uomo?», ne fa ardere un’altra, inespressa: “Chi è questo Dio che s’interessa dell’uomo?”. Insomma: i corpi celesti destarono l’immaginazione poetica di Davide (o di chi per lui), moltiplicandogli i punti di vista. Leggendo il Salmo 8 nel XX e XXI secolo spicca un interrogativo: abbiamo una poesia all’altezza del cielo mozzafiato, dispiegato dall’odierna astronomia? L’arte contemporanea (l’anima contemporanea) onora la maestà imponente, smisurata, inafferrabile e commovente del cosmo? L’immaginazione artistica – intrigo di sensi, sensazioni e affetti, col primordiale fiuto per il senso – sta al passo dell’astrofisica (e della fisica) dell’ultimo secolo?

Certo non è sufficiente dipingere su tela una probabile rappresentazione del Big Bang o qualche galassia, ovvero scrivere versi a base di nebulose e onde gravitazionali. Semmai si tratta di lasciar intridere l’anima dell’altezza, larghezza, profondità, della densità e dei vuoti, delle forme e forze, del visibile e invisibile, dei colori e del buio, degli spazi e dei tempi, della quiete e delle tempeste del cosmo; cose inimmaginate fino a pochi decenni fa. Forse il tentativo più riuscito è dato da Le cosmicomiche di Italo Calvino, dove fisica e astrofisica del XX secolo offrono pennelli e tavolozza per dipingere – con ironia – gli uomini, le donne, i giorni feriali e festivi della vita. Non si tratta solo dell’espediente di un letterato amante della scienza, ma della resa di sfumature e contorni altrimenti inarrivabili.

Certo, letteratura e cinema di fantascienza ricorrono volentieri all’immaginario della cosmologia contemporanea, ma l’immaginazione è un’altra cosa, come il dramma rispetto al teatro dove si rappresenta. Di fronte ai miliardi di stelle della nostra galassia, ai miliardi di galassie, sapendo che tutta questa materia visibile forse è solo il dieci per cento della massa realmente esistente, è facilissimo imboccare la scorciatoia nichilista: “L’umanità è un nulla, un fenomeno cosmico più breve di un attimo”. Così facendo si disonora la sproporzione tra gli umani e l’universo, già vissuta dall’autore del Salmo 8 e straordinariamente accresciuta dall’astronomia contemporanea.

L’antico poeta è più onesto, preferendo rimanere stupito nella tensione della domanda – «Che cos’è l’uomo?» – piuttosto che risolverla con una risposta sbrigativa, in apparenza spaventosamente coraggiosa, in realtà molto accomodante. E la fede? E la teologia? La loro immaginazione (saranno mai possibili fede e teologia senza immaginazione?) raggiunge la finestra spalancata dall’astronomia? Ovvero rimangono requisite dalla trita e ritrita questione del rapporto tra scienza e fede? Una cosa è certa: a un Dio che ha creato (e sta creando) un universo siffatto sono possibili cose che nemmeno riusciamo a pensare.

Giovanni Cesare Pagazzi

Avvenire, 2 dicembre 2022