Dopo il Covid ci siamo “affezionati” all’idea che i mesi di reclusione, l’assenza di socialità e la didattica a distanza con il suo paradossale acronimo “paterno” (Dad) abbiano inciso profondamente nello spirito delle ragazze e dei ragazzi, acuendone il malessere. Tutto vero, per carità. Lo confermano numerosi studi, tra i quali è di drammatica evidenza quello condotto dai ricercatori dell’Università di Torino, pubblicato su “eClinicalMedicine”, che attribuisce al primo anno pandemico, il 2020, un incremento del 10% dei suicidi nei giovani fra i 15 e i 19 anni. Parla altrettanto chiaro il boom degli accessi di bambini e di adolescenti nei Pronto Soccorso per motivi legati all’ansia da prestazione scolastica, ai disturbi alimentari, all’angoscia da bullismo ovvero all’aggressività subita o agita, alla dipendenza da alcool e droghe. Il presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine anno ha menzionato «comportamenti purtroppo alimentati dal web che propone sovente modelli ispirati alla prepotenza, al successo facile, allo sballo».
Il Covid rischia di diventare il capro espiatorio di un disagio esistenziale più largo e più umano, che riguarda appunto il nostro modus vivendi. Il successo è affabulato come se fosse a portata di chiunque, mentre è giocoforza riservato a pochissimi. I legami familiari e le relazioni sociali appaiono sfarinati da una trasformazione faustiana – la globalizzazione e il neoliberismo selvaggio che la guida – capace di erodere ogni esperienza comunitaria, sacrificata sull’altare di Mammona, il profitto deificato. In questo orizzonte si colloca l’ambigua ricerca della fama nei programmi televisivi che ospitano i più giovani. «In futuro tutti saranno famosi per 15 minuti», recita una profezia attribuita ad Andy Warhol. Oggi la celebrità si raggiunge grazie ai talent show, forme di iniziazione all’età adulta tipiche di un’epoca che tende a stemperare il confine con l’adolescenza da entrambi i lati. Sicché, il “rito di passaggio” non è più connesso, che so, al servizio militare o al matrimonio, bensì alle prove del talent o del reality.
Non vogliamo moraleggiare su spettacoli talora struggenti per candore. Resta però che il passo tenero e spavaldo dei partecipanti può incespicare o bloccarsi nei tornanti della selezione (in)naturale del darwinismo in salsa Broadway, persino quando ha raggiunto il traguardo. Fanno testo le recenti rinunce momentanee al palco, per stress, da parte dei cantanti Angelina Mango, Sangiovanni, Emma Marrone, Alfa… Il tema risuona nel romanzo “Viva il lupo” del cinquantottenne Angelo Carotenuto (ed. Sellerio). Il protagonista Gabriele Purotti detto il Puro è il leader di una banda rock, padre separato di una neomaggiorenne, e giudice di un talent show che s’intitola “Viva il lupo”. Una mattina si sveglia senza voce, enigmatico sintomo del senso di colpa. Egli ha infatti scoraggiato una giovanissima concorrente – Tete il suo nome – che, esclusa dalla gara, è finita travolta da un treno. Un tragico gesto volontario? Il Puro non si dà pace e intraprende una discesa agli inferi, a tu per tu con la sua coscienza ferita e i familiari della vittima, in cerca di una assoluzione o una agnizione salvifica. Paura e desiderio, giovinezza e maturità si avviluppano e si contraddicono: «Pensai ai suoi segreti, a quelli di Tete, a quelli che tutte e tutti custodiscono a 16 anni, certi angoli remoti nei quali pensiamo stiano serrate le tenebre che vorremmo loro risparmiare, incapaci come siamo di riconoscere le ombre vere, quelle che cercano di mostrarci con le loro richieste d’aiuto». Viva il lupo, d’accordo. Ma attenti al lupo, ragazzi.
Oscar Iarussi
Avvenire, 10 gennaio 2025