Mirna ha madre casalinga e padre operaio. Vive con tre fratelli in una periferia napoletana e in terza media aveva buoni voti. Voleva iscriversi al liceo classico ma papà e mamma le hanno detto che per lei era meglio l’alberghiero. Anche la dirigente scolastica e i suoi insegnanti le hanno consigliato l’istituto tecnico professionale. Mirna ha frequentato l’alberghiero senza convinzione, ha ripetuto la seconda e in terza ha abbandonato. Nella sua classe in prima erano 32, ma si sono diplomati solo in 17. Le altre sue compagne e compagni sono diventati invisibili. Per rispondere alle tante domande che suscita la storia di Mirna partiamo dalla questione del sovraffollamento delle classi scolastiche, che rappresenta una ingombrane profezia che si autoavvera.
I dati ci dicono che le classi più numerose si concentrano nelle prime delle scuole secondarie di secondo grado, in particolare nelle aree fragili e periferiche delle città metropolitane e negli Istituti tecnici e professionali. Non si tratta di una questione tecnica, ma di scelte squisitamente politiche, che rimandano all’idea di città e di società che la scuola prefigura. La pandemia ha accentuato differenze e discriminazioni e questo è il momento in cui urgono scelte coraggiose ed efficaci, capaci di contrastare la diffusa ingiustizia dell’ammassare in classi sovraffollate ragazze e ragazzi con la certezza che molti abbandoneranno. Le classi del primo biennio degli Istituti tecnici e professionali arrivano a trenta, trentacinque alunni perché alle iscrizioni programmate si sommano i bocciati che arrivano da altre scuole. Sono numeri che vengono pigramente tollerati, perché destinati a essere rapidamente sfoltiti da bocciature e ritiri. Numeri per l’appunto, non ragazze e ragazzi in carne ed ossa con le loro capacità e difficoltà, con i loro desideri senza voce e le loro ambizioni spesso frustrate, come il sogno di Mirna di misurarsi con il liceo classico perché amava studiare.
Venti alunni al massimo per classe nel primo anno delle superiori, a partire dai territori più svantaggiato già dal prossimo settembre, sarebbe un provvedimento che mostra sollecitudine verso le e gli insegnanti impegnati a operare in situazioni di grande difficoltà e lancerebbe un segnale concreto di vicinanza alla scuola reale, invitando al tempo stesso l’intero corpo docente a prestare una massima attenzione alle condizioni e motivazioni allo studio di tutte e tutti, perché nessuno si senta a rischio di esclusione dal primo giorno di scuola. Il nodo vero, infatti, è che la nostra continua a essere una scuola di classe in cui, se sei fragile, povero socialmente o culturalmente, o figlio di famiglia immigrata, nella maggioranza dei casi ti ritrovi in un percorso di formazione che troppo spesso risulta essere di serie B.
Il buco nero dell’abbandono, che in alcuni territori supera il 30%, è enormemente accresciuto della dispersione in presenza, rappresentata da quei giovani che completano il corso di studi ma escono dalla scuola senza avere un livello minimo di conoscenze e competenze logiche e linguistiche, che garantiscano dignità e autonomia sufficienti per affrontare la vita e godere di una piena cittadinanza, perché in possesso degli strumenti necessari per affrancarsi dalla povertà educativa dei territori in cui si sono trovati a vivere. Diminuire il numero di alunni certo non basta, perché deve essere accompagnata da una cura dei contesti di apprendimento, da un ripensamento dei tempi e dei modi dell’educare anche in gruppi e in spazi variabili. Avere classi meno numerose è tuttavia condizione indispensabile per guardare ciascuno negli occhi e offrire ascolto, sapendo dare a tutte e tutti la parola sperimentando, giorno dopo giorno, una didattica attiva capace di dare dignità a ciascuno.
Andrea Morniroli e Franco Lorenzoni
Avvenire, 5 giugno 2021