In questi ormai quasi due anni di pandemia si è molto parlato di scuola, meno di università. Si capisce perché: l’attenzione mediatica dedicata all’istruzione primaria e secondaria si spiega con l’alto numero dei bambini e dei ragazzi coinvolti e con la ricaduta che i modi di organizzarsi della scuola (in presenza o a distanza) hanno sulla vita di molte famiglie. Ora però - nella prospettiva del dopo Covid e degli anni che ci attendono - bisognerà sviluppare una specifica riflessione sull’istruzione terziaria, vale a dire sul mondo universitario. Sia per un dato basilare, su cui concordano tutti gli osservatori: dai periodi di crisi si esce investendo in ricerca e formazione. Sia perché il 'Piano nazionale di ripresa e resilienza' (Pnrr) affronta in modo esplicito il tema nella 'Missione 4: Istruzione e Ricerca' e specificamente nella sotto-sezione 'M4C2: Dalla ricerca all’impresa', indicando le cose da fare e le strategie da mettere in campo.
Aiuta a fare chiarezza sull’argomento un denso articolo, ricco di dati e di spunti di indagine, dal titolo “L’Università nel Pnrr” che esce a firma di Roberto Moscati nel nuovo numero della rivista bolognese 'Il Mulino' (n. 3/2021, disponibile dal 1° ottobre). L’autore, già docente di Sociologia dell’educazione e Sociologia dei processi culturali all’Università di Milano Bicocca, ha il merito di analizzare nel dettaglio le indicazioni del Piano e, al tempo stesso, di mettere in discussione alcuni suoi assetti programmatici.
Un aspetto positivo indicato dal Pnrr è l’invito a creare migliori collegamenti tra scuola e università. In che modo? Per esempio facendo sì che la formazione in servizio del personale docente della scuola primaria e secondaria - definita «obbligatoria, permanente e strutturale» dalla Legge 107/2015 (la cosiddetta 'Buona Scuola') - venga attuata prevedendo la partecipazione di docenti universitari. In passato il rapporto scuola-università era più robusto, anche perché capitava spesso di arrivare alla docenza universitaria dopo alcuni anni di insegnamento nelle scuole. Oggi ciò può ancora accadere in qualche caso, ma è più raro, essendosi creata una sorta di 'separazione delle carriere': un laureato che decida di conseguire un dottorato di ricerca (primo passo verso la carriera universitaria), compiendo quella scelta rischia di precludersi la possibilità di conseguire l’abilitazione per insegnare a scuola. Altro elemento importante in questa direzione è il capitolo dell’orientamento, essendo prevista l’introduzione di specifici moduli rivolti alle classi quarte e quinte della scuola secondaria di secondo grado erogati congiuntamente da docenti universitari e insegnanti scolastici, al fine di consentire agli studenti di comprendere meglio l’offerta dei percorsi didattici universitari e di colmare i 'gap' presenti nelle competenze di base loro richieste.
Tutto perfetto, dunque? Non esattamente. Moscati nota un dato significativo: il settore dell’istruzione terziaria ha un titolo ben preciso: 'Dalla ricerca all’impresa'. Commenta lo studioso: «L’approccio fondamentale del Piano è teso alla costituzione di un forte legame tra istruzione superiore e mondo economico, con la modernizzazione delle strutture formative in funzione dell’ammodernamento del comparto produttivo: in primis attraverso la digitalizzazione, ma più in generale anche con la revisione dello stesso sistema formativo» per renderlo più «funzionale ai bisogni del mondo economico. Questo approccio è esplicitamente riferito al modello internazionale della competizione tra sistemi produttivi nella logica neo-liberal». Tale visione afferma che non c’è sviluppo se non attraverso la competizione. Ma così gli studenti diventano clienti. Questa connotazione viene in qualche misura attenuata da richiami a valori come 'equità' e 'inclusività', che possono però essere riferiti piuttosto ai livelli primario e secondario del sistema formativo (incremento degli asili nido, orientamento per ridurre gli abbandoni), ma che difficilmente - scrive ancora Moscati - «possono essere combinati con le logiche di per sé diversificanti della competizione». Insomma, il rischio è che il sapere autonomo e la libera ricerca vengano in qualche misura subordinati all’economia. Su questo punto bisognerà vigilare, affinché il denaro pubblico investito in università e ricerca vada davvero a vantaggio della collettività e non di pochi potentati industriali e finanziari.
Roberto Carnero
Avvenire, 25 settembre 2021