Impresa solitaria, l’educazione non avviene mai in solitudine. C’è sempre una folla di richieste e contestazioni che prende d’assedio la cattedra, anche quando la cattedra non c’è. Le osservazioni più spietate e veritiere, di solito, arrivano dal fondo, sotto forma di controcanto o di sberleffo. I princìpi pedagogici possono essere finché si vuole, ma valgono poco se non riesco a reggere questo confronto con la realtà. Perché l’educazione, a dispetto di ogni tentativo di strutturarla in sistema scientifico, rimane anzitutto un’arte e l’arte si fa soltanto con i materiali dei quali di volta in volta si dispone, non importa quanto rimediati o provvisori.
Scarti e detriti, istantanee minime di degrado urbano e di trascuratezza paesaggistica ricorrono spesso in Tutti i nomi del mondo (Mondadori, pagine 288, euro 19, in libreria da oggi), oggetto romanzesco del tutto inusuale, sospeso tra confessione autobiografica e costruzione drammaturgica, nel quale Eraldo Affinati porta alle estreme conseguenze il suo percorso narrativo tra le contraddizioni e le meraviglie dell’avventura educativa. Un racconto che, sotto molti aspetti, riprende dallo stesso punto in cui si interrompeva L’uomo del futuro, il libro del 2016, finalista al premio Strega, nel quale Affinati rivisitava la vita e l’opera di don Lorenzo Milani in una prospettiva di forte concretezza. Va bene la celebrazione di Barbiana, lasciava intendere l’autore, ma perché nell’Italia di oggi è così difficile trovare una sede disposta a ospitare una classe di italiano per stranieri? Affinati, com’è noto, è il fondatore e animatore delle scuole Penny Whirton (il riferimento è a un racconto di Silvio D’Arzo), attive in diverse città del nostro Paese attraverso una varietà di esperienze delle quali rendono conto i docufilm della serie Italiani anche noi, trasmessi da Tv2000 in queste settimane.
Personaggi e situazioni rievocati anche in Sarà questo il paradiso?, il 'mattutino' che Affinati tiene attualmente sulla prima pagina di 'Avvenire' - che incontriamo, almeno in parte, in Tutti i nomi del mondo, dove pure si ripresentano i temi caratteristici non solo di La città dei ragazzi (2008), ma anche di Peregrin d’amore (2010), che finora ci appariva come il più personale e sperimentale fra i libri di Affinati, un viaggio nell’Italia dei poeti e degli scrittori condotto in una dimensione di umiltà e realismo attraversata, di nuovo, da un’instancabile preoccupazione educativa. In Tutti i nomi del mondo la voce di Affinati rimane la stessa, riconoscibilissima, ma non è più da sola. A ribattere, spesso riga per riga, al racconto del professo’ c’è infatti il buonsenso spavaldo e mai rassegnato di Ottavio, l’ex allievo del professionale al quale è affidato il compito di riportare alla prosa qualsiasi eccesso di slancio poetico: «Tutto ritorna. Soprattutto ciò che non dovrebbe», osserva Affinati. E Ottavio, di rimando: «Hai magnato pesante!».
Eppure, nonostante l’esibita irriverenza, il vero protagonista del libro è proprio questo borgataro entusiasta e scanzonato, e non soltanto quando spetta a lui l’onore di occupare per intero uno dei capitoli di cui si compone l’immaginario appello di Affinati. Di Ottavio c’è bisogno anche per comprendere la storia di Bostan, di Labib, di Zuri, di Hermal e dei tanti altri convocati in queste pagine. Si ripercorrono le loro storie, le storie dei ragazzi e delle ragazze alla ricerca di un riscatto che per compiersi non può non passare da una lingua piena di insidie (e proprio alle ambiguità del verbo 'passare' è dedicato un paragrafo di particolare efficacia), ma insieme riemergono gli aspetti più dolorosi e decisivi della vicenda familiare dello stesso Affinati.
L’esempio di Alfredo, il nonno partigiano, per esempio, ma anche la novella delicatissima di Quirina, la bella servetta che con l’innominato signor X ha concepito il padre dello scrittore. E se proprio dall’assenza incolmabile di quel nome mancante discendesse l’assillo educativo di cui anche questo libro è testimonianza? Affinati, per conto suo, ha già risposto. Se davvero è un’arte che si serve di quel che c’è a portata di mano, l’educazione comincia sempre dal conoscere sé stessi.
Alessandro Zaccuri
Avvenire, 30 gennaio 2018