Arrivano attaccati l’uno all’altro, questi Penny dalla pelle nera, gialla, bianca e grigia, come proteggendosi e facendosi forza. Magliette multicolori, jeans strappati, cappellini e smartphone. Sono nuclei di umanità che con la loro stessa coesione, mobile e intermittente, all’apparenza infrangibile ma in realtà pronta a dissolversi di fronte al primo ostacolo, svelano il costo concreto e spirituale che lo sviluppo economico e sociale ha comportato. Anche noi eravamo così, un tempo. Cos’è successo? Perché siamo cambiati? E soprattutto: loro prenderanno posto accanto ai nostri strapuntini imbottiti lanciati a folle corsa verso il cosiddetto benessere? Oppure ci faranno modificare la strada indicandocipercorsi migliori?La scuola è uno strumento decisivo per diagnosticare l’atonia della società europea contemporanea. In quale altro luogo potremmo apprendere altrettanto bene il valore della relazione diretta con il nostro prossimo? Il vero amico è l’interlocutore privilegiato, l’anima gemella, direbbe Penny se fosse in grado di farlo, quello che ci sceglie senza giudicarci, pronto ad accettarci come siamo, non come potremmo essere. E noi dobbiamo fare lo stesso con lui. L’amicizia è innanzitutto un camminare spalla a spalla. Non importa la meta. Più che parlare è tacere. Più che raccontare è ascoltare. Più che discutere è capire. Più che confrontarsi è condividere. Trovare nella persona che ci affianca una dimensione nella quale poter esprimerci implica un’assunzione di rischio. Da giovani non conosciamo la paura di farci male. Siamo arsi dalla sete dell’avventura, lanciati verso il regno incantato dei nostri sogni. Abbiamo bisogno di compagni disposti a spartire il peso del futuro. Lo spirito della rivolta, l’audacia del confronto, il desiderio di mettersi alla prova: tutto questo è un fuoco che ci divora. Quando si diventa adulti? Diccelo tu, Penny. Arriva sempre il momento in cui dobbiamo curare la relazione ferita: dentro di noi, prima ancora che all’esterno. È l’ora della verità. L’appuntamento decisivo. Se ci riusciamo, avremo detto addio alle fate e ai boschi che ci avevano stregato illudendoci che il mondo potesse essere puro, incontaminato. Al contrario. Siamo fatti di scorie, errori, imperfezioni, scelte sbagliate. Ma se non fosse così, che vita sarebbe?
Una fede ferita
Credere in cosa? Nella potenza del cosmo, nella materia bollente da cui sono nati i lemuri, nella misericordia di Dio, nella polis cresciuta sulla scarpata o in quella sospesa in cielo? Un educatore dovrebbe credere innanzitutto nel sorriso sgangherato dei suoi ragazzi. Nella passione a cui danno fuoco. Se perdi la fiducia verso di loro, meglio che tu smetta di insegnare. In tale chiave la scuola è una sintesi del lavoro della vita: la missione conoscitiva che attende ogni essere umano. Alcuni profeti hanno pensato il cristianesimo in questi termini liberatori interpretandolo, prima ancora che quale liturgia commemorativa di un antico evento, pura e semplice disciplina dell’arcano, come presa in carico dello sguardo altrui: sono coloro che, negli ultimi tempi, hanno suscitato la mia attenzione anche operativa. La faiblesse de croireè un’espressione di Michel de Certeau, una delle menti illuminate del Ventesimo secolo: la fede dell’uomo mo-derno, lui sosteneva, nasce ferita, non è forte, bensì debole, non ha più dietro di sé grandi architetture sociali e politiche pronte a garantirla e a sostenerla, come accadeva in passato; anche perché prima la violenza totalitaria poi la corruzione delle democrazie hanno depositato la dinamite nei gigli dei campi.
L’individuo religioso è rimasto da solo, simile in questo all’insegnante che finora ho evocato, avvelenato dai radicalismi e mortificato da chi parla a nome suo senza avere la legittimità per farlo. Ma in fondo, dichiarò de Certeau in un’altra opera capitale, Lo straniero o l’unione nella differenza, è questo il momento decisivo: «L’esperienza cristiana rifiuta radicalmente la riduzione alla legge del gruppo ». Continuare a formarne significa creare separazioni. Noi siamo qui. Voi di là. Migliori e peggiori. Accesi e spenti. Ciò equivale a trasformare la nostra identità in un’arma contundente. Per tale ragione a me pare essere l’educatore l’uomo del futuro: colui che si dichiaradisposto a recarsi in un luogo non previsto dove vigono regole sconosciute. Si tratta di un individuo temerario, come il padre e la madre, pronti a raccogliere tutto il sapere accumulato nel tempo per consegnarlo ai bambini, i quali a loro volta sapranno farne buon uso.
Epilogo
Chi educa forma se stesso: assumendo tale spericolato assioma, Hans-Georg Gadamer, a novantanove anni, in una delle sue ultime conferenze alla fine del Ventesimo secolo, ci esortava a ripartire dalle nostre debo-lezze: «Dove la casa paterna ha già fallito del tutto, si sbaglierà nel credere che l’insegnante possa avere maggiore successo... L’uomo entra da sé nella sua casa... Ciò richiederà qualcosa di nuovo, qualcosa che si manifesterà in modi molteplici. Uno dei primi è certo l’apprendimento della scrittura». La scuola intesa in questo modo, quale momento strutturale di costruzione e custodia della parola, nonché, come abbiamo detto, di presa in carico dello sguardo altrui, si trasforma in una concrezione vitale dell’esistenza: la casa di Penny.
In teoria dovrebbe essere il campo magnetico dove agganciarsi alla tradizione e trovare il respiro del futuro, dando senso e legittimità alle nostre espressioni. Luogo di scambio dei caratteri e degli stili. Fabbrica del pensiero. Tana del tempo che sfugge. Nella pratica si configura come una fortezza disarmata, fucina di incontri a cielo aperto, poltiglia di ciò che siamo stati e, chissà, forse potremmo essere ancora. I ragazzi divorano le loro stesse passioni. Gli adulti spolpano l’osso della dialettica finendo per gettarlo nell’immondizia. Il maestro, esposto e vulnerabile, diventa un timone direzionale, la vedetta arrampicata in cima al veliero che scruta l’isola della sapienza, ancora avvolta fra le nebbie, pronto ad annunciarla con voce stridula all’intero equipaggio: i suoi alunni e, con loro, tutti noi. Sappiamo che spesso si sbaglia; chi lo ha ritenuto infallibile, imperscrutabile giudice di valutazioni preconfezionate, ci ha consegnato una falsa immagine di lui. Eppure, per consuetudine storica e fiducia anticipata, gli concediamo un ascolto privilegiato attribuendo valore culturale ed estetico, come avrebbe detto Viktor Šklovskij, all’energia del suo errore. Questo è tanto più vero oggi, nell’era della scomparsa dell’opera, fagocitata in un batter d’occhio dalla Rete insieme ai suoi ricchi apparati esegetici, ormai fregi esotici ed emblemi pittoreschi di un mondo perduto, sommerso nei flutti informatici, divelto dalle classifiche, mortificato dalle maggioranze, contraffatto dalle cerimonie, umiliato dalle statistiche. Accogliamo quindi senza malizia l’invito di quanti, come Giorgio Agamben, ci suggeriscono di «abbandonare la macchina artistica al suo destino», e con essa l’idea dell’arte come «suprema attività umana », immaginando piuttosto un poeta che, al pari di ogni individuo, nel cantiere dei lavori in corso, sia impegnato a compiere «un’esperienza di sé». Si tratta di una chiave interpretativa, volutamente provocatoria ma tutto sommato resistenziale, rispetto ai nuclei etici che sentiamo minacciati, dove artista e educatore tendono a coincidere, l’uno nello spazio espressivo, l’altro in quello didattico, entrambi privi del conforto dei riscontri finali: testimoni tenaci ma disincantati; dapprima quasi eroi sacri, poi statue di gesso lasciate a marcire lungo la riva fangosa del fiume che scorre.
Eraldo Affinati
Avvenire, 24 marzo 2019