Non proibire ma responsabilizzare. Non bloccare ma educare. Sono partiti da qui, al Liceo scientifico e linguistico di Ceccano (Frosinone), quando, tra i primi in Italia, hanno pensato di connettere la scuola alla rete Internet. E oggi, quasi vent’anni dopo, l’esperienza di questo istituto di periferia, presentata alla tre giorni bolognese (vedi articolo sotto), sta girando l’Italia per seminare le buone pratiche dell’utilizzo intelligente delle tecnologie applicate alla didattica. La preside Concetta Senese è stata anche nominata nel gruppo di lavoro ministeriale per la valutazione dell’uso dei device personali in classe. Un metodo, contraddistinto dalla sigla inglese Byod (Bring your own device), che vuol dire “porta il tuo dispositivo”, che al liceo di Ceccano vede, ogni giorno, quasi mille persone collegate alla banda larga della scuola.
«Computer, tablet e, soprattutto, smartphone, sono diventati elementi centrali del nostro fare scuola – spiega il vice-preside e insegnante di religione, Pietro Alviti –. Nell’utilizzare le tecnologie applicate alla didattica, abbiamo ribaltato il paradigma: non si siamo concentrati su ciò che l’insegnante era in grado di fare con questi strumenti, ma sulle esigenze degli studenti. Scoprendo che, se usata con cognizione di causa, la tecnologia è uno strumento fantastico applicata all’istruzione». Con gli esperti dell’Università di Cassino, che fornisce alla scuola la rete del Consorzio Garr, il Liceo ha così realizzato una propria rete, a cui ogni studente può accedere previa autenticazione. «Non abbiamo voluto bloccare nulla, ma responsabilizzare i ragazzi all’utilizzo dei dispositivi – prosegue Alviti –. La scuola non si è, insomma, dotata di un “Grande fratello” per controllare gli studenti, preferendo educare anziché proibire. Fedeli al nostro motto “In dulcedine societatis, quaerere veritatem”, frase di Sant’Alberto Magno che, in sostanza, significa che si studia meglio se si viene a scuola contenti, abbiamo cercato di dare a tutti le migliori opportunità». E i risultati stanno dando ragione a questa scommessa: agli Esami di Stato dell’anno scorso, il Liceo ha avuto 17 “cento” su circa un centinaio di maturandi.
Programmazione informatica, il cosiddetto “coding”, applicata allo studio dell’inglese è invece la strada scelta dall’Istituto
comprensivo di Uggiano La Chiesa (Lecce), che ha inventato il “Codenglish”. La particolarità di questo progetto, consiste nel fatto che, grazie alle tecnologie, gli studenti delle medie hanno utilizzato il coding per imparare l’inglese e, allo stesso tempo, “insegnarlo” ai bambini delle elementari. Come, lo spiega la referente del progetto Susy Caracuta. «Con gli studenti delle medie – racconta la docente – abbiamo realizzato dei giochi, in lingua inglese, attraverso il programma Scratch, che poi sono stati utilizzati dalle insegnanti di lingua delle elementari. I bambini hanno imparato divertendosi, perché i giochi inventati dagli studenti delle medie sono davvero molto belli. Di questo progetto, che tiene insieme e mette in pratica le competenze digitali e civiche dei ragazzi, rafforzando l’amicizia e la collaborazione tra alunni di primaria e secondaria, abbiamo realizzato un Cd che cerchiamo di diffondere per seminare questa buona pratica».
E ancora. La scuola digitale può diventare anche uno strumento per convincere i bambini a mangiare anche la frutta e la verdura proposte in mensa. Lo stanno sperimentando all’Istituto comprensivo 5 di Bologna, con l’atelier digitale “Semi di futuro” dedicato alla filiera del cibo. «Attraverso la coltivazione in serra – spiega l’animatrice digitale della scuola, Claudia Iamundo – gli alunni possono osservare direttamente la crescita e la maturazione di frutta e verdura, dal seme al prodotto finito pronto per il consumo e la distribuzione sul mercato». Il problema è che frutta e verdura non sono, notoriamente, tra i piatti più richiesti nelle mense scolastiche. Così, all’istituto bolognese si sono dotati di una stampante 3D per rimodellare mele e carote (ma anche pere e zucchine e via coltivando), dando loro una forma nuova e più appetibile, inventata direttamente dagli alunni. «Partendo dalla materia prima – riprende Claudia Iamundo – e utilizzando l’alga Agar Agar, un addensante naturale, i bambini sono in grado di realizzare, con la stampante 3D, gli oggetti più diversi, al sapore, appunto, di frutta e verdura».
“Verdure in 3D” è allora la nuova frontiera dell’educazione al cibo e alla contaminazione tra culture diverse, tante quante sono quelle presenti nelle scuola italiana.
Paolo Ferrario
Avvenire, 20 gennaio 2018