UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Come cambiano insegnamento e formazione

L’apprendimento perenne dalla scuola alle esperienze. L’università torna all’antico per abbracciare la realtà
16 Agosto 2017

Nell’antica Grecia, l’educazione veniva chiamata paidéia (da pais, 'fanciullo'). Questo tipo di formazione, che variava sensibilmente da polis a polis, aveva l’obiettivo comune di plasmare il corpo e l’anima del giovane. La paidéia non comprendeva solo l’istruzione scolastica, ma proseguiva per tutta la vita del cittadino e ne toccava ogni aspetto, dalle assemblee ai tribunali, dalle feste religiose ai teatri.

Era una formazione allargata e inclusiva, in cui la città stessa contribuiva in modo sostanziale a costruire la personalità del giovane. L a scuola, così come l’università, oggi mantiene lo stesso ruolo cruciale di pilastro della nostra società. Non c’è sviluppo economico senza uno sviluppo delle competenze e delle conoscenze di chi questa economia la fa muovere. Se da un lato abbiamo i numeri oramai noti di quanto guadagna in più un laureato rispetto a chi non ha conseguito il titolo, possiamo però lanciare uno sguardo rapido a numeri che ci raccontano la realtà da un altro punto di vista: quello del valore che un laureato porta alla comunità in cui vive.

Un interessante studio del Brookings Institution di Washington ha stimato il valore che un laureato mediamente apporta al benessere della comunità locale. Il laureato triennale medio negli Stati Uniti contribuisce 278.000 dollari in più all’economia locale rispetto al diplomato medio, grazie alla maggiore spesa diretta nel corso della propria vita. Il che implica, naturalmente, un maggior potere di acquisto, dato il maggiore salario. Con tali previsioni, l’investimento nello studio universitario appare vincente da molti punti di vista. In Italia, rivela l’Istat, il numero dei laureati è in crescita, seppur ancora lontano rispetto al target del 40% di laureati stabilito dall’Unione Europea per il 2020. Cresce anche il numero di coloro che decidono di proseguire gli studi anche dopo aver conseguito la laurea.

Il lifelong learning è qualcosa che abbiamo imparato a dare per scontato: sappiamo già che dovremo formarci tutta la vita. Occorre adesso capire cosa serve davvero al mondo del lavoro e quali strumenti possono favorire una crescita personale e professionale che possa congiungere la parola 'successo' al concetto di 'felicità'. Questo connubio si raggiunge anche creando una rete di relazioni vere, sincere e di edificazione personale. La malattia del nostro tempo, secondo il sociologo Zygmunt Bauman, è la paura di essere soli, ragion per cui abbiamo trovato decine di modi per rimanere sempre connessi con gli altri. Secondo lui, tendiamo anche a portare le dinamiche della vita offline nel mondo online, guadagnando però da quest’ultimo la facilità con cui gestire i rapporti personali, che si possono troncare in tempi molto più rapidi e senza particolari traumi, o la revocabilità di alcune scelte o decisioni, che difficilmente nel mondo online portano a conseguenze ineluttabili. Il risultato è un progressivo scollamento delle due realtà, che si riassemblano spesso in modo scomposto e disarticolato. La formazione ha un ruolo chiave nell’impedire che ciò avvenga. La scuola prima e l’università poi hanno il compito di insegnare a bilanciare queste due dimensioni. Il nostro ruolo formativo non può prescindere dal considerare l’interconnessione delle reti come un plus che accelera il processo educativo e insegna la capacità di gestire più compiti contemporaneamente. Le distanze del mondo si accorciano, gli orizzonti si allargano.

I Millennials erano considerati la prima generazione globale per via dello sviluppo di internet, ma più il mondo va online, più la Gen Z, ossia i nati a partire dal 1994, sarà connessa nel modo in cui pensa, interagisce e si relaziona. Secondo uno studio inglese, il 58% degli adulti over 35 afferma che oggi gli adolescenti hanno molto più in comune con i loro coetanei in giro per il mondo piuttosto che con gli adulti del loro Paese. In questo quadro di iper-tecnologizzazione vanno tuttavia fatte alcune riflessioni sul senso profondo della formazione e del rapporto con la realtà vicina, preservando i legami reali, tradizionali e fisici che permeano la nostra società. La scuola non serve più solo a trasferire nozioni e sapere, ma perché possa mantenere il suo ruolo primario nella società deve tornare a essere il luogo della generazione della conoscenza. È scuola tutto quello spazio, reale o virtuale, individuale o condiviso, in cui avviene l’apprendimento, ossia si impara. Dobbiamo costruire spazi in cui sia possibile l’interconnessione e lo scambio di esperienza che abilitano all’apprendimento.

Il mio libro, da poco pubblicato da Rubbettino, affronta proprio questo tema sin dal titolo. Erostudente, tutto attaccato, contiene in sé due dimensioni importanti: da un lato Eros, perché l’apprendimento è desiderio, dall’altro il concetto di studente. In questa prospettiva iperconnessa, l’essere studente appartiene a una dinamica in gran parte superata. Se fino a pochi decenni fa si era studenti con una penna, una matita e un foglio di carta, oggi si è piuttosto degli apprendisti digitali, degli scopritori di realtà diverse e lo studio è solo una parte, benché centrale e imprescindibile, del nuovo apprendimento. Un apprendimento fatto di osservazione, interazione, ascolto, esperienza, fallimento, sofferenza, sperimentazione. Ma anche sacrificio, perché nessun grande risultato arriva mai senza una buona dose di impegno e duro lavoro. Dalla combinazione di tutte queste dimensioni scaturisce la considerazione che 'eravamo studenti' ma oggi ancora di più, poiché siamo diventati apprendisti, apprenditivi, apprendevoli. Apprenditori: apprendiamo, capiamo, interiorizziamo, applichiamo, creiamo.

La scuola oggi deve ritornare a essere ciò che era nell’antica Grecia: una fucina di esperienze, una formazione allargata tanto da includere le fonti di apprendimento più trasversali e diverse. Ecco dunque che il lifelong learning evolve e diventa life largelearning, un apprendimento come scuola di vita che si allarga per includere il maggior numero di esperienze e di opportunità possibili. In questo quadro, anche la figura dell’insegnante muta, perché passa dall’essere 'erogatore di informazioni' a 'facilitatore dell’apprendimento'. In un mondo in cui l’informazione è a portata di clic, insegnare è diventato un processo emozionale, più che un fattore intellettuale. Agli insegnanti viene riservato il compito, per nulla secondario, di stimolare la curiosità e approntare un contesto che offra una opportunità di apprendimento. La scuola come la conosciamo nacque con l’obiettivo di creare classi di studenti che riuscissero ad attenersi a regole imposte, che eseguissero i compiti richiesti individualmente e che finissero per rimpinguare le file di una forza lavoro nutrita nei numeri e standardizzata. Oggi abbiamo la possibilità di fare i conti con la realtà attuale e invertire questo meccanismo oramai insufficiente.

In Luiss abbiamo lanciato alcuni anni fa il progetto Volontariamente, che consente agli studenti di effettuare un periodo di volontariato durante l’estate, non senza un risvolto etico e umano. L’esperimento ha riscosso un importante successo. Gli studenti sono andati a svolgere percorsi formativo esperienziali legati a doppio filo a etica e sacrificio: assistere alcune loro coetanee nella difficoltà di trovarsi all’improvviso a essere mamme in un mondo confuso e frenetico, giocare con bambini in difficoltà nelle periferie romane, costruire staccionate per delle comunità nel bisogno, aiutare lo sviluppo della propria città e di chi, da immigrato, giungeva nel nostro Paese con la paura nello sguardo e il cuore piegato da un dolore difficile da esprimere.

Nel libro 'Erostudente' sono gli studenti stessi a parlare, raccontando le loro storie, le loro emozioni e difficoltà. E il loro pregiudizio, a volte. Non sono storie straordinarie. Sono storie di incontro con una realtà da cui spesso giriamo lo sguardo. Che non vediamo, perché il più delle volte non vogliamo vedere. O perché vediamo, ma non osserviamo. I ragazzi che sono tornati da un periodo di lavoro nei campi bruciati dal sole delle terre confiscate alla criminalità, o dalle carceri, o dalle periferie urbane, o dalle associazioni umanitarie, parlano con gioia di una esperienza che li ha arricchiti tanto. Che li ha anche stancati, certo, ma che li ha visti ritornare alla normalità un po’ più cresciuti e con il cuore più largo.

È lo scontro con la normalità invisibile. È l’incontro, né più né meno, con la realtà. Non è forse anche questa una delle abilità che dovrebbe sviluppare la scuola o l’università? La scuola deve imparare a includere quell’umanità dimenticata, quegli aspetti di formazione che riteniamo troppo trasversali o poco rilevanti, o da demandare ad altre sedi. Le istituzioni deputate alla formazione devono istruire persone, prima ancora che professionisti. È quello che il filosofo inglese Alan Watts proponeva molti anni fa, ossia che essere completamente concentrati sul qui e ora, sul viaggio piuttosto che sulla meta, è una danza con la vita che fa bene alla nostra psiche.

Giovanni Lo Storto
Direttore generale Luiss

Avvenire, 12 agosto 2017